1. Introduzione

«I Partigiani pochi erano e pochi debbono ritornare» [1]: con queste parole il capitano di fanteria Leonillo Cavazzuti aprì i lavori della Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani in Emilia-Romagna nella veste di presidente. La percezione che tanti, troppi, si fossero appropriati della eredità ideale e materiale della Resistenza era già diffusa nei mesi successivi alla liberazione dall’occupazione tedesca e alla sconfitta dei fascisti della Repubblica sociale italiana. Significativa l’osservazione dello storico Santo Peli sull’impetuoso ingrossamento delle file partigiane nelle settimane precedenti e successive alla fine del conflitto: «Dai 20-30.000 partigiani ancora in armi dopo i rastrellamenti dell’autunno-inverno [1944-1945], si sale, in marzo a 80.000, a 130.000 alla vigilia dell’insurrezione, a 250.000 all’indomani della liberazione» [Peli 2004, 494].

Fig. 1. Scheda identificativa Anpi di Leonillo Cavazzuti, presidente della Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani [AISP].
Fig. 1. Scheda identificativa Anpi di Leonillo Cavazzuti, presidente della Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani [AISP].

La concessione di un premio di smobilitazione in denaro ai combattenti antifascisti, la prospettiva di ulteriori riconoscimenti economici e di vantaggi materiali aveva attirato l’attenzione di opportunisti dell’ultima ora, di quanti si erano mostrati indifferenti - o addirittura ostili - verso i partigiani e che ora apparivano decisi a salire sul carro del vincitore. Cavazzuti, aderente al movimento democratico cristiano, già dirigente della Resistenza modenese e membro del Comando unico militare Emilia-Romagna (Cumer) [2], si faceva interprete del disappunto che circolava tra coloro che avevano combattuto realmente, spesso con la percezione di essere isolati e ben consapevoli delle ripercussioni causate dalle delazioni dei collaborazionisti. «Vedemmo le nostre file moltiplicarsi vertiginosamente e ci trovammo gomito a gomito con individui del tutto sconosciuti», ricorda la partigiana bolognese Gina Negrini tornando ai giorni della Liberazione, «Da dove sbucava tutta quella gente? Non finiva mai di riempire le piazze, ostruire le vie, curiosare nelle botteghe. Dove si erano cacciati quando quelle strade erano deserte e nostre?» [Negrini 1999, 134].

Il decreto legislativo luogotenenziale n. 518 del 21 agosto 1945 adottato dal governo guidato da Ferruccio Parri istituì 11 commissioni regionali a cui venne assegnato l’arduo compito di accertare l’operato di quanti dichiaravano di aver combattuto contro nazisti e fascisti ed eventualmente assegnare loro la qualifica di partigiano combattente [Pernicone 2011, 53-75] [3].

A partire dal 12 settembre 1945, data di entrata in vigore del decreto, tutti gli interessati avevano sei mesi di tempo per presentare la richiesta di riconoscimento. Partigiani e gappisti che avevano combattuto a nord della Linea gotica, ad esempio, dovevano dimostrare di aver militato per almeno tre mesi in una formazione armata inquadrata nelle forze dipendenti del Corpo volontari della libertà (Cvl) e aver partecipato ad almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio; per i sappisti, invece, occorreva dimostrare di aver militato in una formazione partigiana per sei mesi, partecipando ad almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio; i membri di un comando partigiano o di un servizio dipendente da un comando inquadrato nel Cvl dovevano certificare una militanza di almeno sei mesi. Il riconoscimento inoltre, secondo l’articolo 7 del decreto, veniva concesso a quanti, nell’ambito dell’attività partigiana, avevano riportato ferite oppure erano rimasti in carcere o in campo di concentramento per oltre tre mesi a seguito della cattura da parte dei nazifascisti. La qualifica di patriota era attribuita a quanti avevano militato in una formazione partigiana, o avevano fornito supporto, per un periodo inferiore ai tre mesi. Le commissioni erano dotate anche di potere discrezionale e potevano attribuire il riconoscimento di partigiano combattente a coloro che avevano svolto azioni di particolare importanza senza rientrare nei criteri esposti. La qualifica, infine, era certa per i combattenti che avevano già ricevuto una decorazione al valore.

Era evidente, nei criteri elencati nel decreto, l’importanza attribuita all’aspetto militare della Resistenza, fattore che comportava una chiara «penalizzazione» nella valutazione del contributo delle donne alla lotta contro i nazifascisti [Pernicone 2011, 63; Galli 2011, 79-81].

L’esito positivo dell’istruttoria poteva avere importanti ricadute sulle vite degli ex partigiani grazie ai provvedimenti legislativi adottati tra l’estate del 1945 e l’autunno del 1946 in cui erano previsti, tra l’altro, un premio di solidarietà (esteso alle famiglie dei caduti), l’attribuzione di una pensione di guerra, sussidi di disoccupazione e agevolazioni nell’assegnazione di case o terreni [4].

Dare risposte concrete ai bisogni più urgenti contribuiva a placare le spinte estremiste che albergavano in alcuni settori del partigianato; attribuire ai reduci una qualifica di combattente riconosciuta ufficialmente dallo Stato italiano, inoltre, certificava la volontà della nuova classe dirigente di far entrare la Resistenza nell’identità storica del paese dalla porta principale, almeno dal punto di vista formale. Quel movimento spontaneo e clandestino, composto da banditi e traditori secondo la propaganda di tedeschi e fascisti, si apprestava a ottenere una definitiva legittimazione istituzionale grazie alla sconfitta del nemico. Contemporaneamente, la concessione di premi e riconoscimenti metteva tutto il partigianato di fronte a un dato solo apparentemente banale: la guerra, per lo Stato italiano, era finita ed era giunto per tutti il tempo della smobilitazione, del ritorno alla vita civile, dell’abbandono di ogni velleità di fare politica con le armi in pugno. Nella relazione allegata al decreto legislativo luogotenenziale n. 518 si diceva:

È assolutamente necessario procedere al più presto e con criteri rigorosi e precisi al riconoscimento ufficiale delle qualifiche dei partigiani, per definire la posizione giuridica ai fini della concessione di ricompense, dell’assistenza, delle pensioni, del riconoscimento dei gradi ecc., nonché ad evitare che al buon nome di coloro che hanno veramente combattuto nella lotta di liberazione nuocciano azioni riprorevoli di elementi indegni o che nulla hanno a che fare con il movimento partigiano [Ricci 1995, 253].

L’istituzione e l’inizio dei lavori delle commissioni regionali di riconoscimento tra la fine del 1945 e il 1946 parve configurarsi come una mano tesa verso tutto il partigianato, avviato in tal modo sulla strada della legittimazione istituzionale. L’illegalità diffusa e gli episodi di giustizia sommaria contro fascisti e collaborazionisti registrati nella primavera-estate del 1945, allo stesso tempo, erano al centro delle cronache dell’epoca e oggetto di costante attenzione da parte delle istituzioni. In questo contesto, lo Stato mise in campo anche l’operato delle Corti d’assise straordinarie, chiamate dal giugno 1945 a giudicare i reati di collaborazionismo con l’occupante tedesco [Nubola, Pezzino, Rovatti, 2019].

La violenza di questo tempo lento oltre che lungo è più intensa nelle aree in cui il movimento partigiano è più forte e più radicato: non è un caso che il maggior numero di uccisioni di fascisti si registri, nell’ordine, a Torino, Bologna, Milano e Genova, “le quattro capitali della Resistenza”. Ma soprattutto è tanto più radicale e ampia quanto più - e dove - è stata dura l’occupazione nazifascista nel 1943-1945. In altre parole c’è un rapporto diretto tra la violenza subita e la violenza esercitata [Colombini 2021, 119].

Agli occhi di molti partigiani e antifascisti, la fine dell’occupazione tedesca non coincideva con la fine della guerra civile iniziata nei primi anni Venti, il nemico fascista era ancora presente, pericoloso e serpeggiava diffidenza verso le istituzioni e gli apparati statali dopo due decenni di regime mussoliniano. Per accreditarsi come autorità neutrale e per porre un freno all’esercizio della violenza contro i fascisti, la nuova classe dirigente italiana attuò un’azione articolata su più fronti ed estesa nel tempo. Nei mesi del dopoguerra appariva urgente dare visibilità all’impegno nella punizione delle persone più compromesse con Salò, nell’ottica di convogliare in un percorso legale la richiesta di giustizia di quanti avevano subito lutti, violenze e torti per mano dei collaborazionisti. In seguito l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura si concentrò su ex partigiani, prevalentemente di appartenza comunista, accusati di delitti avvenuti durante l’occupazione tedesca e nei mesi successivi alla liberazione. Una pagina di storia italiana, quest’ultima, in cui si sommarono alcuni tra i temi più complessi che caratterizzarono la nascita della Repubblica: le conseguenze dei rancori esplosi durante il conflitto, le tensioni rivoluzionarie che albergavano in alcuni settori del partigianato, la mancata epurazione degli apparati statali e la volontà di delegittimare la Resistenza che albergava nella burocrazia e negli strati moderati della società italiana estranei agli ideali antifascisti [Dondi 2004; Ponzani 2008; Focardi, Nubola 2015; De Nicolò, Fimiani 2019; Oltre il 1945. Violenza, conflitto sociale, ordine pubblico 2017].

Fig. 2. Composizione della Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani in Emilia-Romagna [AISP].
Fig. 2. Composizione della Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani in Emilia-Romagna [AISP].

2. «Con la più rigida severità»

Le riunioni collegiali della Commissione regionale si tennero a Bologna nei locali di Palazzo Silvani, in via Garibaldi 2, a partire dal 27 dicembre 1945.

In una circolare del 21 gennaio 1946, scritta dopo una riunione con gli altri presidenti delle commissioni regionali a Milano, «stante la necessità di iniziare immediatamente il lavoro per il riconoscimento di Partigiani e Patrioti», Cavazzuti illustrò ai membri della Commissione i criteri a cui attenersi [5].

La Commissione, affermò Cavazzuti, poteva comprendere l’operato dei comandanti delle formazioni partigiane che nei mesi precedenti avevano agito con «una certa larghezza […] nell’andare incontro a casi pietosi per fare loro concedere il premio di smobilitazione» [6]. Inoltre non eccepiva sul fatto che gli stessi comandanti potessero rivedere gli elenchi dei componenti delle brigate per riportarli al numero reale dei combattenti nel periodo resistenziale:

Ma nessuna pietà per coloro che, ora, al momento decisivo di dare il crisma definitivo al Partigiano, insistono nell’avallare gente non meritevole. È un tradire i nostri morti. Si potrà spiegare una certa larghezza nel riconoscimento dei Patrioti, ma i Partigiani pochi erano e pochi debbono ritornare, e da quei pochi vanno decisamente cancellati quelli che si sono macchiati di reati comuni infamanti [7].

Cavazzuti non era preoccupato solo per l’atteggiamento generoso dei comandanti, ma anche per la situazione dell’ordine pubblico. Stando alle sue parole, il partigiano che aveva ceduto alla tentazione dell’illegalità andava sanzionato negandogli il riconoscimento. Da qui l’invito - per i membri della Commissione - a giudicare «con la più rigida severità», poiché occorreva eliminare «decisamente ed indefettibilmente tutte le scorie che appesantiscono ed infangano le nostre file» [8].

Le commissioni dipendevano dal presidente del Consiglio dei ministri e sul loro operato vigilò in prima battuta il Ministero dell’Assistenza postbellica, quindi, dopo la soppressione di questo dicastero nel 1947, subentrò il Sottosegretariato di Stato per l’Assistenza ai reduci e ai partigiani [Pernicone 2011, 61-68].

Secondo le disposizioni del dll 518/1945, Cavazzuti fu nominato presidente dal Ministero dell’Assistenza postbellica; l’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi), per il ruolo di commissari, segnalò i nominativi di due membri per ogni formazione attiva sul territorio regionale inquadrata nell’attività del Corpo volontari della libertà ed esistente prima del 25 aprile 1945. Al Ministero della Guerra, infine, il compito di designare due membri della Commissione scelti tra gli ufficiali delle forze armate che avevano svolto attività partigiana.

Le funzioni di segretario, per designazione unanime degli altri membri nella prima riunione, furono affidate al reggiano Aldo Cucchi, medico, comandante nel bolognese della 7ª Brigata Gap e della 62ª Brigata Garibaldi, nonché vicecomandante della Divisione Bologna. Cucchi e il reggiano Bruno Veneziani, sottotenente dell’esercito addetto al Comando nord Emilia della Resistenza, rappresentarono le brigate Garibaldi organizzate dal Partito comunista, compagine da cui Cucchi si allontanò con grande clamore nel 1951 [Boccolari, Casali 1991; Andalò 2012] [9].

Le brigate Matteotti furono rappresentate da due socialisti bolognesi: Luigi Mari, commissario politico della Brigata Toni Matteotti montagna che aveva operato sull’Appennino tosco-emiliano, e Bruno Marchesi, comandante della 5ª Brigata Bonvicini Matteotti attiva nella zona tra Medicina e Molinella, protagonista di forti attriti con la componente comunista della Resistenza bolognese [10]. Nella Commissione, Marchesi sostituì dopo la prima riunione Anselmo Martoni, già commissario politico della 5ª Brigata Bonvicini, designato sindaco di Molinella nei giorni della Liberazione.

In quota alle brigate Fiamme verdi di ispirazione cattolica parteciparono ai lavori Sergio Bertogalli, commissario politico della parmigiana Brigata Pablo, e Oliviero Bortolani, tenente carrista che aveva aderito alla Resistenza modenese, scampato rocambolescamente alla rappresaglia tedesca di San Giacomo di Roncole [11].

Il medico Giuseppe “Pino” Nucci, comandante della Brigata Santa Justa insediata nella zona di Sasso Marconi, rappresentò le brigate autonome, affiancato da Giovanni Rossi, vicecomandante della Brigata Stella rossa rimasto ferito nelle prime fasi della strage di Monte Sole. Per le formazioni di Giustizia e libertà (Gl) erano presenti il perito industriale piacentino Giuseppe Guarnieri, in sostituzione di Filippo Lalatta (membro quest’ultimo del Cln di Piacenza), e l’ufficiale di artiglieria Pietro Pandiani, originario di Taranto, comandante della Brigata Gl montagna con base sull’Appennino bolognese tra Gaggio Montano e Castel D’Aiano.

Il Ministero della Guerra infine designò quali suoi rappresentanti gli ufficiali Carlo Zanotti e Adriano Oliva: il primo era stato dirigente della Divisione Modena e della Divisione Bologna, l’azionista Oliva aveva operato a contatto con il Cln reggiano.

3. La Commissione al lavoro

L’attività istruttoria della Commissione ebbe il suo perno nelle figure dei comandanti di brigata, ritenuti mediatori indispensabili per attribuire la qualifica di partigiano o patriota a individui che realmente avevano militato nella Resistenza. Ai commissari Cavazzuti affidò il compito di valutare e approfondire quanto dichiarato dai dirigenti partigiani: «Richiamare l’attenzione dei Comandanti di formazione sulle gravi responsabilità che si assumono avallando individui indegni, ogni membro della Commissione ha l’obbligo di fare sondaggi ed indagini, e di denunciare spietatamente chi ha mancato» [12].

Le richieste di riconoscimento presentate su apposito modulo alla Commissione e suddivise per formazione, venivano esaminate da due commissari referendari di cui uno dello stesso “colore” dell’unità sotto esame. Nominati nella riunione del 31 gennaio 1946, i commissari referendari dovevano prendere immediato contatto con il comandante della formazione ricordandogli criteri e principi del lavoro in corso.

Il segretario Cucchi, nella riunione del 12 marzo 1946, dopo aver definito «soddisfacente» l’attività della Commissione fino a quel momento, ribadì:

Ancora una volta il principio di mantenere il numero dei riconosciuti entro i limiti numerici dei ruolini effettivi del periodo cospirativo. Il pericolo di un numero di “Partigiani Combattenti” superiore a quello reale deve essere eliminato da un vaglio severo e scrupoloso che ponga il Comandante della formazione nell’impossibilità d’aumentare il numero dei riconosciuti senza dover escludere i veri combattenti, i quali naturalmente gliene chiederebbero ragione [13].

Toni e argomenti che, molto probabilmente, caratterizzarono tutto l’arco di attività della Commissione. Nonostante le raccomandazioni e le minacce di sanzione, infatti, alcuni dirigenti partigiani proposero riconoscimenti ritenuti eccessivi se in un verbale di fine 1947 si legge: «La Commissione esprime, all’unanimità, parere sfavorevole per la concessione di qualsiasi ricompensa al V[alore] M[ilitare] al Vol[ontario], non ritenendolo meritevole di alcuna ricompensa, data la larghezza con cui il comandante di brigata ha proposto i suoi uomini» [14].

In alcuni casi la Commissione reagì duramente all’eccessiva generosità dei capi militari. Esemplare il caso di una donna modenese avviata al riconoscimento della qualifica partigiana su proposta del comandante di un distaccamento, che si vide sospendere la pratica, come si legge nel verbale:

Per l’intervento di alcuni partigiani della zona che dichiararono che la stessa non aveva mai fatto parte del loro distaccamento. Pertanto […] viene deciso di conferirle la qualifica di “Patriota”. Al Comandante che la propose per la qualifica partigiana non sarà riconosciuta alcuna qualifica gerarchica [15].

Fig. 3. Verbale della Commissione regionale riconoscimento partigiani in Emilia-Romagna, 3 ottobre 1947 [AISP].
Fig. 3. Verbale della Commissione regionale riconoscimento partigiani in Emilia-Romagna, 3 ottobre 1947 [AISP].

Consapevole di esporsi a rischi di contestazione, la Commissione decise subito di non seguire le istruzioni governative sull’obbligo di pubblicazione dei nomi di quanti non ottenevano il riconoscimento di partigiano o patriota: «Si ritiene che, per evidenti ragioni di opportunità e di delicatezza, non sia opportuno attenersi a questa norma in quanto il mancato riconoscimento può dar luogo, da parte del pubblico, ad errate interpretazioni sulle cause che lo hanno determinato» [16]. Negli albi dei comuni e delle sezioni provinciali dell’Anpi vennero così affissi solo gli elenchi dei partigiani e dei patrioti riconosciuti, oltre ai nominativi di caduti e mutilati.

Nel luglio 1946, in piena fase operativa, la Commissione comunicò alla Presidenza del consiglio che erano già stati riconosciuti 16.000 partigiani, mentre con «larga approssimazione» si prevedeva di riconoscerne altri 30.000 [17]. Gli elenchi dei riconoscimenti approvati definitivamente venivano inviati a Roma, alla Commissione nazionale di secondo grado, e le riunioni, in media 20 al mese, si susseguirono a ritmo serrato fino al 30 dicembre 1947, data dell’ultimo incontro.

Le sedute plenarie del sabato mattina erano dedicate alla trattazione dei casi dubbi. Fin da subito emerse l’aspetto più controverso su cui decidere: la valutazione su eventuali trascorsi nella Repubblica sociale italiana. I commissari si trovarono di fronte all’esito di una guerra che aveva diviso gli italiani dando impulso anche a decisioni ondivaghe sulla scelta di campo, frutto di ripensamento, opportunismo o convinzione. Tra i pochi punti di riferimento vi erano i documenti che attestavano l’opera d’infiltrazione della Resistenza nelle file fasciste, viatico sicuro per il riconoscimento dell’attività partigiana: «Sono da considerarsi valide le autorizzazioni a prestare servizio o quanto meno giuramento alla repubblica Sociale Italiana, rilasciata [sic] dal Comando Unico, dai Comandi Zona operazione, dal Comando Piazza del C.L.N. Provinciale» [18].

Per il resto era necessario esaminare caso per caso e, talvolta, la Commissione si divise. Un volontario di Giustizia e libertà che per tre mesi aveva fatto parte parte della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) si vide riconoscere la qualifica di patriota «per la sua notevole attività partigiana» con 9 voti favorevoli e 4 contrari [19]. Un caso analogo richiese l’impegno in prima persona del commissario Pietro Pandiani, il quale «[era] disposto a rilasciare una dichiarazione circa l’attività eccezionale» di un suo partigiano con alle spalle un breve periodo nella Gnr: la Commissione si mostrò disponibile ad esaminare il caso dell’uomo («eventualmente gli sarà rilasciata la qualifica di Partigiano») [20] e l’intervento di Pandiani portò infine al riconoscimento.

Le direttive di un comandante caduto nella strage di Monte Sole ebbero un valore vincolante per la Commissione, così che un carabiniere rimasto in servizio nel bolognese dopo l’armistizio, venne riconosciuto partigiano della Brigata Stella rossa «dato che il servizio nell’Arma dei Carabinieri dopo l’8 settembre 1943 è stato ordinato dal Comandate [sic] della Brg. Stella Rossa, Mario Musolesi» [21]. Quando la collaborazione con il nemico aveva prevalso sul supporto alla Resistenza la Commissione non ebbe dubbi, questo fu il caso di un maggiore dell’esercito che riteneva di avere i requisiti per l’avanzamento di grado incappò nel suo dissenso:

La Commissione esprime all’unanimità parere sfavorevole, avendo detto ufficiale collaborato con il Comando Germanico come interprete. Pur riconoscendo a detto ufficiale una piccola collaborazione al movimento clandestino, non lo ritiene meritevole di alcuna ricompensa in quanto la sua attività è stata insignificante [22].

La sospensione di una pratica di riconoscimento rappresentava un chiaro segnale sulla necessità di approfondimenti, l’attesa e il timore di un parere negativo spinsero alcuni richiedenti fino alla minaccia esplicita ai commissari. La prudenza sugli elenchi da affiggere si dimostrò quindi fondata, ma in tali occasioni occorreva una risposta netta. La Commissione, così, respinse le domande in sospeso di tre uomini che «avevano prestato servizio nelle formazioni repubblichine» e li denunciò all’autorità giudiziaria dopo l’invio di una lettera al commissario Guarnieri per sollecitarlo «ad evadere favorevolmente le tre pratiche e contenente minaccie [sic [23].

4. Emilia-Romagna e antifascismo

Nel dicembre 1947 giunse a conclusione l’attività di valutazione della Commissione regionale [24]. Si trattò di un lavoro imponente: in attesa degli scostamenti dovuti alle valutazioni dei ricorsi e alle pratiche sospese (sui feriti, ad esempio, occorreva una valutazione medica) i partigiani combattenti bolognesi riconosciuti furono circa 14.000 [25], cifra raggiunta anche dai riconoscimenti dei partigiani modenesi [26]; per i ferraresi si toccò quota 1.400 [27], reggiani e piacentini si attestarono entrambi sulla cifra di 6.000 riconoscimenti, i parmensi riconosciuti furono circa 8.000 [28], i ravennati circa 5.000 [29], i forlivesi oltre 3.400 [30].

Nel 1948 il testimone passò alla Commissione nazionale di 2° grado con sede a Roma, chiamata in particolare a valutare i ricorsi di quanti ritenevano di non aver ricevuto un riconoscimento adeguato dall’organismo presieduto da Cavazzuti. Secondo i dati resi noti nel 1954 dal Ministero della Difesa, l’Emilia-Romagna fu la regione che aveva dato il più alto contributo alla lotta contro il nazifascismo, i partigiani riconosciuti dalla Commissione nazionale furono infatti 59.634; il Piemonte seguiva al secondo posto con 43.339 partigiani riconosciuti [Onofri 2007, 29] [31].

Alla luce di questi numeri è lecito chiedersi se venne rispettato il proposito iniziale di Cavazzuti, deciso a concedere la qualifica di partigiano ai «pochi» volontari che avevano combattuto realmente contro tedeschi e fascisti. Allo stesso tempo, però, appare complesso giudicare il lavoro della Commissione emiliano-romagnola, chiamata a valutare un’attività di guerriglia sotto un regime di occupazione militare confidando soprattutto sulle dichiarazioni dei dirigenti partigiani.

La storia di lungo periodo dello scontro tra fascismo e antifascismo in questa porzione d’Italia rende credibile un’ampia mobilitazione antifascista durante l’occupazione tedesca. Dal 1919 una guerra civile a bassa intensità dilagò da Piacenza a Rimini ed episodi come la strage di Palazzo D’Accursio a Bologna (21 novembre 1920), l’eccidio del Castello Estense a Ferrara (20 dicembre 1920) e gli scontri dell’agosto 1922 a Parma possono essere considerati tappe decisive nel percorso che portò infine al consolidamento del movimento mussoliniano in tutta Italia [Alberghi 1989]. Alcuni tra i massimi dirigenti del regime fascista condividevano la regione di provenienza con Benito Mussolini: Italo Balbo, Dino Grandi e Leandro Arpinati erano emersi grazie alle imprese dello squadrismo in Emilia-Romagna, un’ascesa che, da leader locali, li aveva trasformati in figure di primo piano a livello nazionale. La sconfitta manu militari dell’antifascismo nelle cosiddette “roccaforti rosse” d’Emilia, oltre a riscuotere ampi consensi nei settori moderati, aprì la strada alla repressione permanente e alla riduzione in clandestinità del dissenso politico. Tra il 1925 e il 1943 i residenti in Emilia-Romagna sorvegliati dall’apparato poliziesco del regime fascista e segnalati nel Casellario politico centrale furono oltre 12.000, nella grande maggioranza per sospetto o conclamato antifascismo [32]. In regione dunque, nonostante tutto, sopravviveva una opposizione coriacea al regime. Certamente però gli eventi legati al trauma dell’8 settembre 1943 costituirono un detonatore per un rinnovato impegno dei “vecchi” antifascisti e spinsero tanti giovani a fare scelte di campo impensabili solo qualche mese prima. L’arrivo dell’esercito di occupazione tedesco, il dispiegarsi del collaborazionismo fascista, il rifiuto alla chiamata di leva della Rsi, l’avvicinamento del fronte di guerra e le stragi [33] mobilitarono una quota di popolazione che diede vita alla Resistenza, un’opposizione dalle tante sfaccettature, fluida e che per la sua natura volontaristica e clandestina tende a sfuggire a un’analisi puramente quantitativa. Diversi studi invece hanno già tracciato un profilo sociale della Resistenza emiliano-romagnola, in attesa di nuovi approfondimenti. Nel 2011, ad esempio, Luciano Casali ha scritto che si trattò di «un fenomeno essenzialmente giovane» e, traendo le conclusioni di una ricerca condotta dagli Istituti della Resistenza relativa ai riconoscimenti delle qualifiche partigiane in regione, aggiungeva:

[…] crediamo di poter individuare due gruppi distinti di persone che parteciparono alle attività resistenziali. Da una parte, i giovani (compresi grossomodo fra i 18 e i 30 anni), sia renitenti alle chiamate di leva effettuate dalla repubblica sociale, sia sbandati dopo l’8 settembre e non più ripresentatisi nelle file dell’esercito fascista. Da costoro soprattutto furono costituiti i gruppi che portarono a compimento le principali azioni armate. Dall’altra parte, i meno giovani, con oltre trent’anni, cui in genere era affidata la attività organizzativa, politica, sociale, propagandistica, oltre ad azioni che divennero più routinarie (ma che erano egualmente pericolose, in quanto potevano portare alla cattura e fucilazione), come le scritte propagandistiche sui muri, la eliminazione ella segnaletica stradale, il taglio dei fili telefonici e telegrafici. […] Se accettiamo tale divisioni fra “giovani” combattenti e “vecchi” organizzatori, diventa evidente la preponderanza dei primi […] [Casali, Preti 2011, 39-40].

Nella documentazione del fondo Archivio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (Ricompart) [34] depositata dal Ministero della Difesa presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma, ritroviamo gran parte delle carte prodotte dalle commissioni regionali di riconoscimento, una “fotografia” della Resistenza che gli stessi protagonisti scattarono nei mesi e negli anni immediatamente successivi alla fine dell’occupazione tedesca. Si tratta di una risorsa resa disponibile dal 2020, in occasione del 75° anniversario della Liberazione, destinata a diventare uno strumento prezioso con cui confrontarsi al momento di indagare ancora più a fondo l’identità di quanti scelsero di combattere contro tedeschi e fascisti.

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    Agata Pernicone, Riconoscimenti ai partigiani: un quadro istituzionale (1944-2006), in Casali, Preti 2011, pp. 53-75.
  • Ponzani 2008
    Michela Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Roma, Aracne, 2008.
  • Ricci 1995
    Verbali del Consiglio dei Ministri. Governo Parri 21 giugno 1945-10 dicembre 1945, a cura di Aldo Giovanni Ricci, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, vol. V, t. 1, 1995.

Risorse


Note

1. Archivio Istituto storico Parri, fondo Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani Emilia-Romagna (AISP, Commissione riconoscimento ER), b. 19, fasc. 196, circolare a firma Cavazzuti del 21 gennaio 1946.

2. Il Cumer, organo deputato al coordinamento della Resistenza in Emilia-Romagna, iniziò la sua attività clandestina a Bologna nella primavera del 1944 e fu guidato fino alla Liberazione da Ilio Barontini [Casali, Gagliani 1987].

3. Le 11 commissioni istituite avevano giurisdizione su Piemonte, Lombardia, Triveneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzi, Lazio e Campania. Nel 1948 venne istituita la Commissione per la Venezia Giulia. Il portale web I partigiani d’Italia. Lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e delle donne della Resistenza (https://www.partigianiditalia.beniculturali.it/) riscostruisce l’intera vicenda delle commissioni e mette a disposizione la documentazione da esse prodotta e conservata presso l’Archivio centrale dello Stato. L’iter che portò alla nascita delle commissioni e un quadro nazionale dei lavori sono trattati alla pagina web

4. La legislazione in favore dei partigiani è analizzata alla pagina web (https://www.partigianiditalia.beniculturali.it/la-legislazione/).

5. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 196, circolare a firma Cavazzuti del 21 gennaio 1946. Si veda anche: Severo vaglio alle qualifiche partigiane, in «Giornale dell’Emilia», 28 dicembre 1945.

6. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 196, circolare a firma Cavazzuti del 21 gennaio 1946.

7. Ibidem.

8. Ibidem.

9. Aldo Cucchi e Valdo Magnani criticarono apertamente la politica di vicinanza del Pci all’Unione Sovietica di Stalin, furono così espulsi dal partito e i comunisti coniarono per loro il termine dispregiativo di “magnacucchi”.

10. Si veda uno stralcio della testimonianza di Bruno Marchesi nella pagina web: https://www.storiaememoriadibologna.it/marchesi-bruno-510177-persona.

11. L’episodio è ricostruito in: http://www.straginazifasciste.it/wp-content/uploads/schede/San_Giacomo_Roncole_Mirandola_30_settembre_1944.pdf.

12. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 196, circolare di Leonillo Cavazzuti del 21 gennaio 1946.

13. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 196, verbale del 12 marzo 1946.

14. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, verbale del 24 novembre 1947.

15. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, verbale del 3 gennaio 1947.

16. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, verbale del 19 gennaio 1946.

17. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, comunicazione alla Presidenza del consiglio, luglio 1946.

18. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, verbale del 5 gennaio 1946.

19. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, verbale del 3 gennaio 1947.

20. Ibidem.

21. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, verbale del 31 gennaio 1947.

22. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, verbale del 21 novembre 1947.

23. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 1, fasc. 1, verbale del 31 gennaio 1947.

24. Il presidente Cavazzuti, il segretario Cucchi e il personale di segreteria nei tre anni successivi perfezionarono il lavoro sulle qualifiche gerarchiche, tennero i rapporti con la Commissione di 2° grado, con i comitati provinciali dell’Anpi e con il Sottosegretariato per l’Assistenza ai reduci e ai partigiani della Presidenza del consiglio, comunicarono le decisioni sui ricorsi ai diretti interessati e rilasciarono dichiarazioni firmate sulle qualifiche spesso per “uso lavoro”, nell’ottica di favorire l’inserimento lavorativo degli ex partigiani.

25. Furono 14.253 i partigiani combattenti bolognesi riconosciuti a lavori conclusi [Arbizzani 1965, II].

26. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 202, comunicazione dell’ufficio di Modena a firma Iovino alla Commissione regionale in data 29 febbraio 1948.

27. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 205, comunicazione dell’ufficio di Ferrara, senza data.

28. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 204, comunicazione del segretario Veneziani alla Commissione regionale in data 31 marzo 1948, quando termina il lavoro dell’Ufficio distaccato nord Emilia a Parma. Veneziani sottolinea però che sono in sospeso numerose pratiche di riconoscimento relative a civili.

29. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 203, comunicazione dell’ufficio di Ravenna a firma Tino Ghiselli alla Commissione regionale in data 19 gennaio 1948.

30. AISP, Commissione riconoscimento ER, b. 19, fasc. 201, comunicazione dell’Ufficio di Forlì, senza data.

31. Secondo il censimento del 1936 la popolazione residente in Emilia-Romagna era pari a 3.368.017 unità.

32. Il dato esatto, 12.213, è ricavabile consultando la banca dati del Casellario politico centrale messa a disposizione dall’Archivio centrale dello Stato (http://dati.acs.beniculturali.it/CPC/).

33. In Emilia Romagna tedeschi e fascisti si resero responsabili di 1.015 episodi classifcati come “stragi” ne l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, progetto promosso dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) e dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Insmli) che ha portato alla predisposizione di una banca dati visibile alla pagina web http://www.straginazifasciste.it/.

34. Storia e caratteristiche principali della documentazione sono descritte alla pagina web: (https://www.partigianiditalia.beniculturali.it/archivio/).