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“Per brevità chiamato ‘artista’”

Le canzoni dei cantautori nella costruzione di identità giovanile e cultura politica (‘68-‘78)[1]

Lucio Dalla e Francesco De Gregori nel 1979 – Pubblico dominio, Collegamento

Abstract

Il percorso si snoda lungo il decennio ’68-’78 del nostro Paese attraverso la lente della produzione musicale dei cantautori, espressione diretta di quel periodo fortemente caratterizzato dal punto di vista ideologico, in cui la musica, con l’affermarsi della figura del cantautore “impegnato”, della novità del concept album, dell’utilizzo di un nuovo linguaggio letterario e di modelli musicali estranei alla tradizione italiana, quali il folk americano, il jazz, la ballata irlandese, assume un ruolo attivo di costruzione dell’impegno politico e di stimolo alla combattività della società civile.
Tale politicizzazione giunge a saturazione verso la fine del decennio quando si assiste ad una crisi di identificazione dei giovani con l’ideologia e al loro allontanamento dalla politica. Un passaggio, questo, intercettato altrettanto bene dalla canzone d’autore che comincia a restituire il desiderio di gran parte del mondo giovanile di scrollarsi di dosso le pesantezze delle alte temperature ideologiche.

Introduzione

A cavallo tra anni ’60 e ’70 prende avvio una stagione irripetibile per la scena musicale e culturale italiana. La generazione del baby boom dimostra di avere scelto la musica come linguaggio universale. Forte di un decollo che dai tempi del miracolo economico non si è ancora arrestato, l’industria discografica dei primi anni ’70 intercetta e propone ai consumi giovanili le diverse tendenze musicali che compongono quel paesaggio sonoro: cantautori, rock progressivo, canto politico, pop melodico, canzone tradizionale, disco-music, fino all’affacciarsi del reggae e del punk, sul finire del decennio.

Ma la formula che meglio di ogni altra si lega ad un stagione definita dell’impegno, e non solo in Italia (engagement in Francia, commitment nel Regno Unito, cançao d’intervençao nel Portogallo di Salazar, ecc.), è sicuramente quella del cantautore  “impegnato”, per l’appunto.

I nuovi protagonisti della canzone d’autore (Guccini, De Gregori, De Andrè, Bennato, Finardi, Lolli, Dalla, Venditti, per citarne solo alcuni) sono una sorta di “versione 2.0” della prima generazione di cantautori, la cosiddetta scuola genovese. Rispetto ai vari Paoli, Tenco, Bindi e Lauzi, però, essi presentano specificità che scaturiscono direttamente dallo spirito di quegli anni e sono proprio queste peculiarità a fare di quel repertorio una specie di colonna sonora degli anni ’70. Al punto che oggi molti ragazzi rileggono quel periodo anche attraverso le loro canzoni.

 

Percorso

TEMATICHE

Gli ingredienti della formula “cantautore impegnato” riguardano diversi aspetti: temi trattati, linguaggio dei testi, soluzioni musicali, immagine dell’artista e rapporto con la discografia.

Dal punto di vista delle tematiche, la novità è che la riflessione sociale e politica si mischia a riferimenti alla quotidianità o, addirittura, costituisce lo sfondo di storie personali. Molte delle questioni che hanno alimentato le mobilitazioni del ‘68 – anticonformismo,  ripensamento dei rapporti di genere, liberazione sessuale, allargamento della sfera della coscienza, lotta per i diritti individuali e civili, teoria e pratica delle minoranze, critica della scuola e dei saperi, pacifismo ecc. – si ritrovano così sedimentate all’interno di vicende individuali.

Fra gli innumerevoli brani che si potrebbero citare, esemplificativo in questo senso è La tua prima luna di Claudio Rocchi:

«Questa è la tua prima luna / che vedi fuori di casa sapendo di non ritornare / Oggi sei uscito e ti sei domandato / ma dove sto andando e che cosa farò / Sei finito in un prato mangiando una mela comprata passando dal centro / dove i tuoi amici parlavano ancora di donne e di moto e tu che fumavi la gioia / di essere riuscito a fuggire di casa / lasciandoti dietro soltanto la voglia di non tornare…»[2].

I nuovi e importanti cambiamenti nelle abitudini e nel costume portati dalla protesta giovanile avviano una crescente disaffezione nei confronti della famiglia tradizionale e dello spazio domestico come sede dei valori e del bisogno di solidità borghesi. “Uscire di casa” diventa un’aspirazione diffusa tra ragazze e ragazzi alla ricerca di un’indipendenza che consenta spazi di espressività autonomi. La costruzione di questo territorio “di mezzo” tra la famiglia d’origine e quella che il giovane avrebbe formato in futuro costituisce una vera novità nell’itinerario formativo di un individuo. Il passaggio tra i due nuclei familiari, infatti, fino ad allora era avvenuto senza soluzione di continuità, spesso perpetrando modelli comportamentali e gerarchie tradizionali appresi all’interno della famiglia dei genitori. Ma nella fuga da casa della canzone sopra citata vengono implicitamente a galla anche riflessioni sull’antiautoritarismo, inteso come contestazione delle diverse autorità che gravano sulla condizione giovanile:

«E mentre dormi sul prato sentendo un po’ freddo / con dentro la voglia di piangere forte / tu senti passare una macchina verde della Polizia / non ti vedono neanche li senti andar / via capisci di colpo che il loro discorso è diverso dal tuo!»[3].

CONCEPT ALBUM

La miscela tra individuale e collettivo che caratterizza i temi dei cantautori alimenta interi percorsi narrativi che, non di rado, occupano lo spazio di un intero album. Non a caso negli anni dell’impegno si registra anche un avvicendamento nel campo dei supporti fonografici fra il 45 giri, assoluto protagonista del boom discografico degli anni ’60, e il 33 giri o LP (long playing), un prodotto artisticamente più complesso che meglio si lega allo spirito di quel tempo. Così, prendendo come riferimento il ’68, in quell’anno-simbolo la canzone “regina” in Italia sarebbe Azzurro[4] di Celentano, prima assoluta nelle vendite. Hey Jude[5], che nelle charts USA e inglesi è al primo posto assoluto, nel nostro Paese figura solo al 31° posto, ampiamente superata da brani quali Ho scritto t’amo sulla sabbia[6] e Luglio[7].

Ma, come si diceva più sopra, le novità vengono dalla classifica degli album, dove al primo posto compare Tutti morimmo a stento di Fabrizio De Andrè e al secondo Fabrizio De Andrè Volume I pubblicato l’anno precedente sempre dal cantautore genovese. Protagonisti di quei dischi sono gli “ultimi” (drogati, prostitute, impiccati..) che De Andrè racconta rovesciando l’ottica perbenista borghese. Basta considerare brani come Via del campo[8], Girotondo[9], una filastrocca antimilitarista in piena guerra del Vietnam, o Recitativo (Corale) che deplora i vincenti nella competizione sociale («Uomini senza fallo, semidei che vivete in castelli inargentati, che di gloria toccaste gli apogei […], banchieri, pizzicagnoli, notai coi ventri obesi e le mani sudate […], giudici eletti, uomini di legge…»[10]) ed invita a spostare lo sguardo sull’“umano, desolato gregge”. Sicuramente distante dai fatturati vertiginosi delle canzonette commerciali ma capace di rivolgersi ad una platea ben più vasta di quella del canto politico, questo incontro tra discografia e canzone d’autore è forse il prodotto che restituisce meglio lo spirito del ’68.

Tutti morimmo a stento è anche il primo esempio nella musica leggera italiana di “concept album”, ovvero un 33 giri che ruota attorno ad una sola idea tematico-musicale e spesso impreziosito da testi, illustrazioni, giochi grafici, gadget, poster e materiali di vario tipo. Su questa strada i pionieri erano stati i Beatles con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (‘67), seguiti in Italia da Fabrizio De Andrè che nel ‘68 firma ben due: Tutti morimmo a stento, appunto, e Senza orario senza bandiera, un altro capolavoro del cantautore genovese scritto per i New Trolls[11].

In quest’ultimo album, tra le altre tematiche, affiora anche un altro elemento che prende forza dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II quando si diffondono all’interno della Chiesa religiosi che col loro impegno attivo interpretano il sacerdozio in un modo più calato nel sociale. Preti alla don Lorenzo Milani, autore di Lettera ad una professoressa[12] che ha inciso profondamente nella cultura del ’68. La canzone Padre O’Brien ritrae una di queste figure:

«Ho chiesto, e non mi han dato / un quinto del tesoro / sprecato in una lunga guerra. / Un quinto mi bastava / per togliere il dolore / dai lebbrosari della terra»[13].

Signore, io sono Irish, invece, racconta la storia di un uomo che chiede a Dio una bicicletta per percorrere ogni giorno le trenta miglia che separano la sua casa dal posto di lavoro. In quella grande stagione di utopie, la bicicletta inizia a definirsi come simbolo di una visione della vita che vuole rimettere al centro i bisogni dell’essere umano, anticipando di parecchio la sensibilità ecologista, come nel caso delle mitiche “biciclette bianche” dei provos olandesi. Nella canzone, la bici diventa così la chiave per una “ribellione” al materialismo dei consumi che può passare attraverso altre vie:

«Signore io sono Irish quello che non ha la bicicletta / […] Ma tu sei buono e fra gli amici che tu hai / una bicicletta per il tuo Irish certamente la troverai / Anche se vecchia non importa, anche se vecchia mandala a me / Purché mi porti nel tuo giorno mio Signore fino a te»[14].

SENSIBILITÀ PER LA STORIA

La canzone d’autore raccoglie nelle sue tematiche anche la sensibilità per la storia che era da sempre presente nel canto popolare. Pur non parlando in modo specifico di argomenti storici, i cantautori riescono spesso a tracciare quadri precisi della mentalità, degli stati d’animo, delle inquietudini o delle aspirazioni del passato. Il loro lavoro sul versante della storia, rispetto a quello degli autori militanti, ottiene una risonanza maggiore proprio perché essi scelgono di non svolgerlo in contrapposizione con la musica di consumo, bensì sfruttando il potenziale comunicativo offerto da una discografia finalmente pronta ad accogliere certi temi. In questo modo la canzone d’autore rende un gran servizio non solo alla musica leggera, aumentandone il peso specifico, ma anche alla storia in sé, avvicinandola al pubblico. Basta pensare, fra i tanti, alla fortuna di brani quali Auschwitz (Guccini), 4 marzo 1943 (Dalla), Primavera di Praga (Guccini), Ti ricordi, Joe?, sullo sbarco dei marines nelle Filippine (De Andrè), o San Lorenzo di De Gregori che, nel raccontare il bombardamento di Roma (19 luglio ’43), si sofferma su alcuni momenti intensi di quella drammatica giornata come l’immediata visita di Pio XII alle zone colpite:

«E il Papa la domenica mattina da San Pietro / uscì tutto da solo tra la gente / e in mezzo a San Lorenzo spalancò le ali / sembrava proprio un angelo con gli occhiali»[15].

In pochi versi e con l’immediatezza del linguaggio espressivo delle canzoni, San Lorenzo decifra anche il clima emotivo di un Paese oramai maturo per un distacco dal regime, nonostante questo non sia ancora caduto (25 luglio ’43); un Paese che alla domanda del duce “Volete burro o cannoni?” ha smesso da un pezzo di rispondere “Cannoni!”:

«E un giorno, credi, questa guerra finirà / ritornerà la pace ed il burro abbonderà»[16].

CANTO POLITICO

In questo senso nella figura del cantautore impegnato confluisce anche tutta l’esperienza del canto politico che negli anni ’60 aveva intercettato puntualmente tutti i passaggi più critici del conflitto sociale. Valle Giulia di Paolo Pietrangeli, per esempio, aveva riferito degli scontri di fronte alla facoltà di Architettura della Sapienza nel marzo del ‘68 in modo quasi cronachistico:

«Undici e un quarto avanti a Architettura / non c’era ancor ragion d’aver paura / ed eravamo veramente in tanti / e i poliziotti in faccia agli studenti / “No alla scuola dei padroni! / Via il governo, dimissioni!”»[17].

Nel contesto socio-politico degli anni ’70 molti di quei canti di ispirazione militante, come Contessa[18], diventano vere e proprie colonne sonore del “movimento”. Ma, mentre negli anni ’60 quei canti erano veicolati quasi esclusivamente dai canali della comunicazione di classe (occupazioni, cortei, manifestazioni di piazza, canzonieri e gruppi canori di movimento) ed erano viceversa trascurati dai canali della comunicazione di massa, nel decennio successivo – nel quadro di un massiccio allargamento dell’interesse politico da parte del mondo giovanile – il mercato musicale mostra segni di interesse anche per questi materiali. Gli argomenti di carattere collettivo, una volta connessi alla dimensione individuale, trovano nella nostra canzone d’autore la giusta combinazione per raggiungere una più vasta platea di fruitori composta sia da giovani su posizioni ideologicamente mature sia da quella parte più consistente di mercato che è alla ricerca di modelli di riferimento culturali qualitativi più che di proposte politiche di senso compiuto. La naturale conseguenza di questo investimento da parte del business porta, da una parte, all’aumento di uno spazio politico sostenuto dalla discografia e raccolto nel repertorio dei cantautori, ma, dall’altra, al depotenziamento della carica provocatoria che avevano fin lì svolto gli autori “militanti” (Della Mea, Pietrangeli, Bertelli, Assuntino, ecc.). A questo proposito, ricorderà Ivan Della Mea:

Noi non ci siamo accorti subito che stavamo diventando dei cantautori, perdendo la connessione con quel filo rosso che ci aveva collegati alla ricerca. Andando dietro a una sollecitazione di mercato, ancorché di “mercato di sinistra”. Quello delle Feste dell’Unità (molto gratificanti sul piano del pubblico), di fatto abbiamo accettato la dimensione del cantautore. Per quanto riguarda il canto di protesta sociale, la nostra attività perde allora in maniera drammatica il suo elemento di alterità e di eversione, proprio perché le sue modalità sono ormai uguali a quelle del mercato.[19]

LINGUAGGIO

Un altro rinnovamento consistente che i cantautori portano nella musica italiana riguarda il linguaggio. Da questo punto di vista essi introducono un carattere letterario che prima i testi delle canzoni italiane non avevano. Ciò dipende anche dal fatto che i protagonisti della canzone d’autore, per la maggior parte, sono di estrazione borghese e dotati di un buon bagaglio scolastico in quanto nati dopo la massiccia diffusione dell’istruzione avviata nel dopoguerra[20]. Il “capitale culturale” supplementare di cui i cantautori sono dotati consente loro di introdurre un nuovo modo di raccontare basato sostanzialmente su due pilastri: 1) l’utilizzo di metafore e costrutti logico-sintattici fuori dal quotidiano e non sempre facili alla comprensione; 2) un uso piano e regolare della lingua al posto delle forzature (cuor, amor, ecc.) cui erano ricorsi i parolieri fino a quel momento per sopperire ad un vocabolario povero di tronche come il nostro.

I testi cominciano così a svolgersi lungo percorsi di suono, di immagini e di senso che, rispetto alle canzoni tradizionali, si avvicinano in maggior misura al linguaggio poetico. Ciò vale anche per i contenuti più politici, come accade in Saigon di De Gregori, capace di addensare in poche figure retoriche il paesaggio e il lavoro nelle risaie nel Vietnam del Sud, la vicenda di una giovane madre in un contesto di guerra, la speranze di liberazione di un intero popolo:

«Donna giovane del Vietnam / come è strano coltivare il mare / Quanti fiori ti ha dato già / quanti altri te ne potrà dare / da qui a Saigon la strada è buona / Terra libera, terra scura / quest’autunno cambierai colore / C’è mio figlio che ha occhi grandi / quando guarda verso Sud / da qui a Saigon la strada è buona…»[21].

SOLUZIONI MUSICALI

Legata alle innovazioni linguistiche e metriche, oltre che di contenuto, vi è la scelta delle soluzioni musicali e la pratica compositiva, molto diffusa fra i cantautori, di utilizzare modelli musicali estranei alla tradizione melodica italiana come il fingerpicking, le ballate folk americane, gli stilemi degli chansonniers francesi, la ballata irlandese, il rock & roll e il jazz. È infatti l’impiego di strutture d’importazione e l’organizzazione di un impianto musicale del brano diverso (anche nell’arrangiamento) da quelli della musica di consumo a spingere i cantautori nella ricerca di nuovi adattamenti linguistici, di accentazioni diverse dei vocaboli e di un respiro del verso adatto ad un nuovo pensiero ritmico.

Indicativa in questo senso è la definizione artistica scelta da Edoardo Bennato che, oltre allo stile compositivo, si presenta ai concerti attrezzato come il tipico street-musician delle metropolitane londinesi o il one-man band delle grandi città americane: chitarra folk, armonica a tracolla, kazoo e tamburello suonato col piede. Nel disco I buoni e i cattivi (’74), che lo porta al successo, Bennato raccoglie a piene mani l’eredità del ’68 concentrando il concept-album sulla critica all’autoritarismo in tutte le sue declinazioni: amministrazioni pubbliche (Ma che bella città), scuola (In fila per tre), pubblica sicurezza (Bravi ragazzi), classi dirigenti del dopoguerra (Arrivano i buoni), politica, con l’ironia sul termine “compromesso” al centro del dibattito in quei mesi (Facciamo un compromesso), simboli istituzionali (La bandiera), fino a spingersi alla più alta carica dello Stato con il brano Uno buono. Quando Bennato scrive Uno buono, Giovanni Leone, Presidente della Repubblica dal ‘71, è già al centro delle critiche per cadute di stile che lo consegnano all’opinione pubblica come inadeguato al ruolo presidenziale:

«Finalmente sei arrivato su quel trono / e tra inchini e baciamano / fai il discorso e non parli l’italiano / Parli con l’accento della gente / dove tu sei nato / […] Fa qualcosa, fa qualcosa / se sei uno buono!».

In seguito, al presidente Leone verranno rimproverate frequentazioni discutibili con finanzieri d’assalto fino al coinvolgimento, nel ’76, in un grosso scandalo per l’acquisto illecito da parte dello Stato italiano di aerei militari dalla Lockheed Corporation, una delle più importanti industrie aerospaziali americane. Quelle accuse si riveleranno infondate ma costano a Leone le dimissioni anticipate il 15 giugno ‘78.

Un altro brano che coinvolge Leone esce dal repertorio del canto militante. A metà anni ’70, il panorama sociale è drammaticamente mutato rispetto a pochi anni prima. Tra il ’69 e il ’74 vengono compiuti ben 140 attentati e, sempre nel ’74, Paolo Pietrangeli scrive E’ finito il ’68, identificando nella strategia stragista un disegno eversivo che sposta a destra gli equilibri politici del paese e interrompe in senso autoritario il rinnovamento avviato pochi anni prima. Pietrangeli gioca con i doppi sensi del testo per attribuire la responsabilità delle stragi ai politici del tempo (Leone parafrasato come il «re della foresta», Rumor, fino ad Andreotti) e ai «corvi neri», ovvero frange dell’estrema destra e settori dei servizi segreti e delle forze armate:

«È finito il sessantotto / è finito con un botto / Tutti a casa siam tornati / gli ideali ripiegati in tasca / […] Ed il re della foresta / celebrando la sua festa / ha voluto per coppieri / quei ben noti corvi neri […] Fan governi sulle bombe / e dischiudono le tombe / se non bastan prece e motti / volan bassi i candelotti / che fan rima con Andreotti»[22].

Il mondo della canzone d’autore, invece, caratterizzato sicuramente da un grande respiro artistico ma meno marcato dal punto di vista ideologico, reagisce al senso di smarrimento per la dissoluzione dell’esperienza sessantottina avviandone una sorta di racconto epico. Per quanto riguarda la rappresentazione del ’68, si assiste così ad una sorta di divaricamento tra canto politico e canzone d’autore. De Andrè, ad esempio, in un suo album del ’74 (Storia di un impiegato) inserisce La canzone del maggio, una personale rielaborazione di Chacun de vous est concerné, l’inno del maggio parigino scritto da Dominique Grange:

«Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio / se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento / se il fuoco ha risparmiato le vostre millecento / anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti…»[23].

IMMAGINE

Dal punto di vista dell’immagine, a differenza dei cantautori precedenti i cantautori degli anni ’70 non danno segno di aver attraversato il rapido cambiamento conosciuto dalla società italiana nel dopoguerra. Sono figli di tempi “già cambiati” (rifacendosi alla celebre canzone di Dylan), i primi frutti di una nuova stagione culturale, i primi ad essere uguali alla generazione che rappresentano.

Parallelamente a tutto questo, si fa strada, nella percezione del pubblico, anche una nuova idea di “autenticità” della canzone, di congruenza fra il prodotto culturale del cantautore e la sua identità, la sua reale esperienza. Questa domanda pressante di coerenza porta anche parecchi artisti alla necessità di chiarire la loro posizione, in pubblico (articoli, confronti diretti con contestatori, ecc.), o con il mezzo migliore che essi hanno a disposizione: la canzone. Le repliche oscillano tra l’ironia, l’approccio onirico e l’invettiva. La prima soluzione è lo strumento privilegiato da Bennato (Rinnegato, 1973; Cantautore, 1973; Sono solo canzonette, 1980). Un taglio onirico, di ispirazione simbolista, caratterizza invece la riflessione di De Gregori nel brano De Gregori era morto! composto nel ’74 ma inserito solo di recente nell’album Per brevità chiamato “artista” (titolo preso a prestito per questo percorso):

«Stamattina han bussato alla porta / e nessuno ha risposto / De Gregori era morto! Ucciso dal suo ultimo LP e dai suoi profeti…».

La strada dell’invettiva, infine, è quella scelta da Guccini per la sferzante Avvelenata (‘76):

«Voi critici, voi personaggi austeri / militanti severi, chiedo scusa a vossia / Però non ho mai detto che a canzoni / si fan rivoluzioni si possa far poesia / Io canto quando posso, come posso / quando ne ho voglia senza applausi o fischi / Vendere o no non passa fra i miei rischi / Non comprate i miei dischi e sputatemi addosso»[24].

Insieme a tutti i disagi che denuncia nell’interpretare il suo mestiere, Guccini cita anche il fantasma del “qualunquismo”: «Giovane e ingenuo io ho perso la testa / sian stati i libri o il mio provincialismo / e un cazzo in culo e accuse d’ arrivismo / dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta»[25]. Di fronte alla radicalizzazione dello scontro politico in atto in quegli anni, infatti, gran parte del mondo giovanile, anche quello non politicizzato, si sente chiamato ad una presa di posizione. Il “qualunquismo”, non come categoria politica (quella portata alla ribalta nel dopoguerra dal partito di Guglielmo Giannini) ma come categoria etica, diventa presto il tratto più disprezzabile fra i ragazzi che si trovano a vivere i loro “riti di iniziazione” proprio a cavallo tra la fine dei ’60 e inizio degli anni ‘70. Anzi, il desiderio di emancipazione di quei nuovi giovani – ormai diventati a tutti gli effetti una “categoria sociale” e non più solo “biologica” – passa proprio attraverso la necessità di differenziarsi dai loro fratelli maggiori che, nella maggior parte dei casi, avevano racchiuso il loro campo esistenziale nel ristretto quadrilatero bar/balera/donne/motori.

CANZONI ALLA SBARRA!

Ma quelli sono anche i mesi di maggior disorientamento per il mondo giovanile. Gran parte delle energie creative liberate nei primi anni ’70 si è irrigidita nella tensione di un clima sociale che progressivamente ha trasformato gli “anni di musica” in “anni di piombo”. Lo spazio del “movimento” è stato annullato dall’aut-aut del terrorismo sia di destra che di sinistra (dopo il sequestro del giudice Mario Sossi nel ‘74 lo slogan delle Brigate Rosse diventa “O con lo Stato o con le BR”) e dalla  conseguente dissoluzione di organizzazioni come Lotta Continua e Avanguardia Operaia che avevano fatto da volano per la creatività di molti artisti[26]. Il “movimento” si trova di fronte ad un blocco evolutivo chiaramente percepibile proprio durante la “Festa del Proletariato Giovanile”  (Parco Lambro ’76), l’ultimo festival pop organizzato dalla rivista di controcultura «Re Nudo» fondata a Milano nel ’70 dall’obiettore di coscienza Andrea Valcarenghi.

Ciò che determina il fallimento completo dell’iniziativa è la consapevolezza che quel “proletariato giovanile”, cui è la festa è intitolata, in realtà non esiste. Un’amara canzone scritta da Gianfranco Manfredi su questa esperienza, Un tranquillo festival pop di paura, è in grado di toccare con pochi versi il punto nodale di quel fallimento:

«E siamo tutti insieme ma ognuno sta per sé / la ricomposizione si sogna ma non c’è / ognuno nel suo sacco o nudo tra il letame / solo come un pulcino, bagnato come un cane»[27].

Emerge in modo lampante l’assenza di un nuovo soggetto politico:

«E vuoi vedere in faccia il proletariato giovanile / perché è lui l’invitato che doveva venire / ma senti già nell’aria una strana vibrazione / che nasce dai feticci vestiti da persone»[28].

Così il fallimento di quel raduno coincide anche con la fine di un intero ciclo di festival pop, e forse con la parte migliore degli anni ’70, dove in modo quasi collettivo, o comunque largamente condiviso, erano sedimentate le utopie, i desideri e le speranze di cambiamento di un’intera generazione di “zingari felici”, secondo una locuzione entrata nel lessico della canzone d’autore grazie al brano Ho visto anche gli zingari felici di Claudio Lolli (‘76).

Qualcosa si è rotto nel rapporto tra cantautori e movimento giovanile. Il clima di intolleranza nei confronti degli artisti si diffonde sempre più e qualcuno mormora perfino che si tratti di un’operazione programmatica. L’azione violenta sempre più diffusa nei concerti di massa avrebbe, da parte delle frange più estreme del “movimento”, l’obiettivo di coinvolgere il pubblico giovanile e monopolizzare l’organizzazione e la gestione, anche economica, dei concerti. Al festival di Licola Alan Sorrenti, nel ’75, viene duramente contestato e bersagliato da lattine piene di sabbia a causa dei suoi prolungati vocalizzi. Nello stesso anno, durante un concerto a Pescara, De Gregori viene pesantemente attaccato da un gruppo di femministe che gli rimproverano il testo di Buonanotte Fiorellino, troppo ricco, secondo le contestatrici, di espressioni zuccherose nei confronti delle donne (“fiorellino”, “monetina”, “uccellini”, ecc.). Poco tempo dopo, Venditti viene circondato fuori da un teatro da contestatori che lo accusano di compensi troppo alti e testi borghesi. La sera di venerdì 2 aprile ’76, al Palalido di Milano, De Gregori subisce il più noto di questi processi politici. I reati a lui ascritti sono: arricchimento illecito, ermetismo borghese, linguaggio oscuro alle masse, contenuti intimistici lontani dagli interessi dei lavoratori.

La politicizzazione della musica davvero deve essere giunta a saturazione se l’anno successivo, durante il silenzio di De Gregori, perfino un cantautore della prima generazione come Bruno Lauzi arriva a pubblicare Io canterò politico, un brano-invettiva contro i suoi colleghi di sinistra:

«Io cantero politico quando starete zitti / e tutti i vostri slogan saranno ormai sconfitti / quando sarete stanchi di starvene nel coro / a battere le mani solo se lo voglion loro / e avrete bisogno dell’individualismo / per vincere la noia di un assurdo conformismo»[29].

In questo clima si assiste ad una crisi di identificazione dei giovani con l’ideologia. È un divario sempre maggiore quello che sta separando la società dalla classe politica ed emerge in tutta la sua prepotenza con Nuntereggae più scritta nel ’78 da Rino Gaetano. Nella canzone, il cantautore calabrese concentra in sarcastici scioglilingua la sfiducia nel confronti dell’intera classe politica:

«Pci Psi Dc Dc Pci Psi Pli Pri Dc Dc Dc Dc / Cazzaniga, nun te reggae più! / […] Onorevole eccellenza, cavaliere senatore / nobildonna, eminenza, monsignore, nun te reggae più! / Immunità parlamentare, nun te reggae più!, ecc.» [30].

 

Conclusione

Il 9 maggio ‘78, dopo quasi due mesi di prigionia viene ritrovato il cadavere di Aldo Moro. Forse è lì che finiscono gli anni ’70. Certo, anche negli anni successivi le scelte e il consumo di musica non smettono di legarsi all’evoluzione delle sensibilità collettive. Emergono nuovi cantautori (Bertoli, Lolli, Fossati, e tanti altri), dilaga anche in Italia la disco-music, esplosa sull’onda del successo dello “Studio 54” di New York e del film La febbre del sabato sera (‘77), si affacciano nuovi generi come il “reggae” –  legato alla cultura “rasta”, al consumo di ganja (marijuana) e al ballo – e il punk col suo carattere “eversivo” che punta a scandalizzare i benpensanti con testi, elementi e atteggiamenti vistosamente provocatori. In tutte queste espressività musicali, così come in quelle che verranno dopo ancora, si può leggere lo spirito del tempo che le ha prodotte.

Ma nella parabola che qui abbiamo attraversato, le canzoni dei cantautori hanno fatto qualcosa di più. Esse hanno esercitato un ruolo determinante nella formazione identitaria di molti giovani di quella generazione, alimentando un sentimento di appartenenza che li ha accompagnati nel partecipare e interpretare il loro presente. Esse sono state la fonosfera di un “movimento” in cui non si entrava per una vera e propria scelta politica o prendendo una tessera.[31] Il “movimento” era un’esperienza individuale e insieme collettiva nella quale un giovane semplicemente si riconosceva, rispecchiandosi in quanti come lui avevano mutato modo di guardare la realtà, gerarchie di valori, forme di aggregazione, lessico, costumi sessuali, codici di comportamento, domande di significato alla vita e… anche alle canzoni.

 

Bibliografia
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Note:

[1] Il titolo è preso a prestito da un album di De Gregori pubblicato nel 2008. La locuzione fa riferimento ai contratti discografici di tipo standard nei quali l’autore viene “per brevità chiamato ‘artista’”. Il percorso nasce come rielaborazione in chiave didattica di un mio precedente saggio: G. Lanotte, -“Musica ribelle. La cultura musicale tra identità giovanile e comunicazione politica negli anni Settanta”, in «L’Impegno, rivista di storia contemporanea» (a cura dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea nelle provincie di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli”), a. XXXVII, nuova serie, n. 1, giugno 2017

[2] C. Rocchi, La tua prima luna, 1970

[3] Ibid.

[4] V. Pallavicini, P. Conte, M. Virano, Azzurro, 1968

[5] J. Lennon, P. McCartney, Hey Jude, 1968

[6] Sharade, Sonago, Ho scritto t’amo sulla sabbia, 1968

[7] R. Del Turco, G. Bigazzi, Luglio, 1968

[8] F. De Andrè, E. Jannacci, Via del campo, 1967

[9] F. De Andrè, G. P. Reverberi, Girotondo, 1968

[10] F. De Andrè, G. P. Reverberi, Recitativo (Corale), 1968

[11] Oltre a De Andrè – che consegnerà altri esempi di concept album con La buona novella (1970), Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971) e Storia di un impiegato (1973) –  si esprimono in questa direzione anche altri esponenti della canzone d’autore: il già citato Claudio Rocchi con Volo Magico n.1 (1971) e La norma del cielo (1972), Franco Battiato con Fetus (1972), Claudio Baglioni con Gira che ti rigira amore bello (1973) e il fortunatissimo Questo piccolo grande amore dell’anno precedente (1972), solo per citarne alcuni.

[12] Scuola di Barbiana (a cura di), Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967.

[13] F. De André, R. Leva, N. Di Palo, V. De Scalzi, Padre O’Brien, 1968

[14] F. De André, R. Mannerini, G. P. Reverberi, Signore, io sono Irish, 1968

[15] F. De Gregori, San Lorenzo, 1982

[16] Ibid.

[17] P. Pietrangeli, Valle Giulia, 1969

[18] P. Pietrangeli, Contessa, 1966

[19] C. Bermani, “Il Nuovo canzoniere italiano, il canto sociale e il ‘movimento’”, in Nanni Balestrini e Primo Moroni (a cura di ), L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997 (prima ed. SugarCo, Milano, 1988).

[20] A questo proposito si veda il profilo sociale dei cantautori tracciato da M. Santoro, La leggerezza insostenibile, in «Rassegna italiana di sociologia» 2/2000 – Anno XLI, n.2, aprile-giugno 2000, p. 206.

[21] F. De Gregori, Saigon, 1973

[22] P. Pietrangeli, E’ finito il ’68, 1974

[23] F. De Andrè, La canzone del maggio, 1974

[24] F. Guccini, L’avvelenata, 1976

[25] Ibid.

[26] Avanguardia operaia, insieme ad altri movimenti della sinistra extraparlamentare (PdUP per il comunismo, Movimento Lavoratori per il Socialismo ex Movimento Studentesco) confluisce nel cartello elettorale che promuove di Democrazia Proletaria alle regionali del ’75, mentre il movimento di Lotta Continua si scioglie nel novembre ’76 al congresso di Rimini.

[27] G. Manfredi, Un tranquillo festival pop di paura, 1977

[28] Ibid.

[29] B. Lauzi, Io canterò politico, 1977

[30] R. Gaetano, Nunteregghecchiù, 1978

[31] Sul punto si veda: T. H. Anderson, The Movement and the Sixties. Protest in America from Greensboro to Wounded Knee, Oxford University Press, 1995, pp. xv-xvi. Questo aspetto viene efficacemente ripreso anche nell’ottimo lavoro di M. Flores e G. Gozzini, 1968. Un anno spartiacque, Il Mulino, Bologna, 2018.

Dati articolo

Autore:
Titolo: “Per brevità chiamato ‘artista’”
DOI: 10.12977/nov289
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.12, agosto 2019
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, “Per brevità chiamato ‘artista’”, Novecento.org, n. 12, agosto 2019. DOI: 10.12977/nov289

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