Statuto regionale

Diritto on line (2017)

Michele Belletti

Abstract

In questa Voce si intende indagare la natura della fonte Statuto regionale, limitatamente alle Regioni a Statuto ordinario, che ha conosciuto una significativa trasformazione a seguito della l. cost. 22.11.1999, n. 1. L’analisi prende in considerazione l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sotto due profili sintomatici delle intervenute novità, il procedimento di formazione e i contenuti dello Statuto, indagando infine la giurisprudenza sul contenuto non necessario di principio.

Premessa

Con la l. cost. n. 1/1999, il legislatore di riforma costituzionale ha inteso incidere sulla situazione di cronica instabilità degli esecutivi regionali, introducendo una forma di governo che ricalca il modello cd. “neoparlamentare”, di cui alla l. 25.3.1993, n. 81 per Comuni e Province (cfr., ora il d.lgs. 18.8.2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, che ne dispone l’abrogazione all’art. 274). Nel fare ciò, il legislatore non si è limitato ad attribuire un ruolo fondamentale nella definizione della forma di governo regionale allo Statuto, implementando le materie di sua specifica e necessaria competenza, ma ne ha modificato anche il procedimento di formazione, incidendo, di conseguenza, sul sistema delle fonti (regionali e statali) e sulla natura della fonte statutaria. Basti pensare che l’elemento qualificante quell’assetto di governo, ovvero, l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale, può essere derogato dalle previsioni statutarie (così, cfr., art. 122 Cost., ult. co.), che sono dunque legittimate a “rompere” l’assetto costituzionalmente contemplato della forma di governo regionale. Il che, nonostante non vi sia dubbio che in concreto, la questione dei contenuti statutari sia stata in buona parte ridimensionata dalla giurisprudenza costituzionale, limitando di fatto la scelta statutaria, in tema di forma di governo, a due soli meccanismi istituzionali, l’elezione diretta o l’elezione consiliare del vertice dell’esecutivo, in un contesto che deve giocoforza rimanere “parlamentare”.

Se pertanto un sufficiente grado di certezza pare essere stato raggiunto in punto di possibile definizione dei contenuti statutari, non si può dire lo stesso con riguardo alla natura dello Statuto regionale, alla sua collocazione nel sistema delle fonti, soprattutto regionale, ed alla conseguente definizione dei criteri di risoluzione delle antinomie soprattutto nel rapporto tra Statuto e legge regionale.

È da rilevare che, ancorché la l. cost. 31.1.2001, n. 2 abbia contemplato una legge regionale “rinforzata” per le Regioni a Statuto speciale, con la quale queste possono disporre in materia di forma di governo in deroga rispetto agli Statuti adottati con legge costituzionale, ex art. 116, co. 1, Cost., la problematica della natura della fonte statutaria si pone prevalentemente per le Regioni a Statuto ordinario, sulle quali si concentrerà pertanto la presente analisi.

Natura dello Statuto regionale

Gli aggravamenti del procedimento di formazione

Secondo la formulazione dell’art. 123 Cost. non v’è ora alcun dubbio che lo Statuto sia fonte regionale dal punto di vista sia sostanziale, che formale, disponendo l’art. 123, co. 2, Cost. che «Lo statuto è approvato e modificato dal Consiglio regionale con legge».

Questa legge regionale deve (inoltre) essere approvata in forza di una procedura aggravata rispetto all’“ordinaria” procedura di adozione della legge regionale, che richiama significativamente, talvolta aggravandoli ulteriormente, i passaggi fondamentali del procedimento di revisione costituzionale, di cui all’art. 138 Cost., in un contesto naturalmente monocamerale. La disamina dei tratti essenziali di questa procedura e della valenza dei relativi aggravamenti diviene pertanto indispensabile per comprendere la natura della fonte statutaria.

L’incidenza delle peculiarità e degli aggravamenti procedimentali sulla natura dello Statuto e sulla sua conseguente collocazione nel sistema delle fonti viene infatti da subito rilevata dalla Corte costituzionale laddove, per giustificare nei confronti dei soli Statuti regionali un controllo preventivo di legittimità costituzionale, precisa che «una soluzione diversa da quella appena indicata non potrebbe certo fondarsi su una esigenza di simmetria con il giudizio di legittimità sulle leggi regionali, che ormai, a seguito della revisione dell’art. 127 Cost., (…), è successivo alla entrata in vigore della legge», poiché, vi sarebbero «ragioni di coerenza sistematica» che «inducono a negare che il valore della legge regionale (…) sia in tutto assimilabile a quello degli statuti regionali, la peculiarità dei quali si fa evidente se si considerano le diverse innovazioni che li hanno coinvolti». Primo fra tutti, il relativo procedimento di formazione, che «può dirsi (…) richiami il modello che l’art. 138 della Costituzione delinea per le leggi di revisione costituzionale» (C. cost., 3.7.2012, n. 304), per alcuni aspetti addirittura aggravandolo ulteriormente.

Lo Statuto viene approvato e modificato dal Consiglio regionale con due successive deliberazioni, adottate ad intervallo non inferiore di due mesi, a maggioranza assoluta in entrambe le deliberazioni. Può essere impugnato dal Governo di fronte alla Corte costituzionale per vizio di legittimità costituzionale entro trenta giorni dalla pubblicazione (art. 123, co. 2, Cost.) e sottoposto a referendum popolare «qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale» (co. 3). Rispetto alla procedura di cui all’art. 138 Cost. è addirittura richiesta una maggioranza qualificata in entrambe le deliberazioni ed è sempre possibile richiedere il referendum popolare, a prescindere dalla maggioranza raggiunta in seconda deliberazione.

Il che parrebbe indubbiamente deporre per una collocazione di vertice dello Statuto nel sistema delle fonti regionali, ancorché il tema dovrà essere più analiticamente sondato alla luce della riserva costituzionale di competenza statutaria, in ragione della stretta attinenza della questione della natura dello Statuto, non solo con quella della procedura di formazione, ma anche con quella dei contenuti statutari.

È tuttavia sicuramente opportuno prendere le mosse da un passaggio della prima pronuncia della Corte costituzionale in argomento, la sentenza n. 304/2002, che offriva una significativa apertura nei confronti degli Statuti regionali, nella inequivocabile direzione di una collocazione di vertice degli stessi nel sistema delle fonti regionali. Vi si legge che «complessivamente considerata, la disciplina posta dall’art. 123 è chiara nelle sue linee portanti e realizza un assetto normativo unitario e compatto, in cui ciascuna previsione è assistita da una propria ragione costituzionale, e tutte si legano tra loro in un vincolo di coerenza sistematica, che disvela il ponderato equilibrio delle scelte del legislatore costituzionale». Infatti, per un verso, le istanze autonomistiche sarebbero state pienamente appagate «con l’attribuzione allo statuto di un valore giuridico che lo colloca al vertice delle fonti regionali e con la scomparsa dell’approvazione parlamentare; dall’altro, il principio di legalità costituzionale ha ricevuto una protezione adeguata alla speciale collocazione dello statuto nella gerarchia delle fonti regionali», poiché, «la previsione di un controllo di legittimità costituzionale in via preventiva delle deliberazioni statutarie è intesa infatti ad impedire che eventuali vizi di legittimità dello statuto si riversino a cascata sull’attività legislativa e amministrativa della Regione, per le parti in cui queste siano destinate a trovare nello statuto medesimo il proprio fondamento esclusivo o concorrente» (C. cost. n. 304/2012).

La Corte costituzionale respinge dunque l’assunto dell’assimilazione del regime giuridico degli Statuti a quelle che significativamente definisce le “ordinarie” leggi regionali, quasi a rilevare l’esistenza anche a livello regionale di una distinzione tra leggi ordinarie e leggi a quelle sovraordinate. A fronte della «essenziale posizione che, nell’art. 123 Cost., assume l’impugnazione governativa dinanzi alla Corte costituzionale», ne deriva che «pieno riconoscimento di autonomia statutaria e controllo preventivo di legittimità costituzionale rappresentavano, nel sistema della legge costituzionale n. 1 del 1999, un binomio inscindibile, che la successiva modificazione del trattamento delle leggi regionali non ha minimamente scalfito» (C. cost. n. 304/2012).

Rapporto tra controllo di costituzionalità e referendum

La Consulta non si limita nell’occasione a confermare la natura preventiva del controllo di legittimità costituzionale, ma definisce inoltre i rapporti tra impugnativa governativa e referendum confermativo, posto che non sono da subito mancati dubbi in ordine ai rapporti di priorità temporale o logica dell’uno o dell’altro adempimento. Con tutta evidenza, far decorrere entrambi i termini, trenta giorni per l’impugnativa governativa e tre mesi per la richiesta di referendum, da un unico momento, quello della pubblicazione notiziale, conduce al rischio di sovrapposizione delle due procedure. In ipotesi, potrebbe verificarsi lo svolgersi del referendum su un testo diverso da quello sul quale era stato chiesto per l’intervenuto annullamento di alcune parti della delibera ad opera della Corte costituzionale, oppure, qualora dovesse attardarsi il giudizio della Corte, lo svolgersi del referendum su un testo che potrebbe poi anche essere dichiarato integralmente, o per alcune parti, incostituzionale.

La Corte costituzionale ebbe a precisare che, sia il termine di cui al co. 2 che quello di cui al co. 3 decorrono dalla medesima pubblicazione notiziale, in ragione del carattere preventivo di entrambi gli adempimenti rispetto all’entrata in vigore dello Statuto (C. cost. n. 304/2012).

Con lo scopo di evitare eventuali sovrapposizioni tra le due procedure e consentire comunque una più rapida definizione dei procedimenti in via di azione, la l. 5.6.2003, n. 131, recante Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3, all’art. 9, ha modificato, tra gli altri, l’art. 35 della l. 11.3.1953, n. 87, recante Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale, disponendo che nell’ipotesi di ricorso ex art. 31 (in via di azione), così come nelle ipotesi di ricorso ex artt. 32 e 33, la Corte costituzionale debba fissare l’udienza di discussione del ricorso entro novanta giorni dal deposito dello stesso. Il che non risolve ovviamente il problema dell’esaurimento del giudizio della Corte prima del referendum, così da garantire che il corpo elettorale si pronunci su un testo definitivo, posto che entro il termine di novanta giorni deve essere unicamente fissata l’udienza, non già depositata la decisione. L’art. 9 ha inoltre riconosciuto alla Corte costituzionale la possibilità di disporre la sospensione dell’esecuzione dello Statuto, assicurando almeno che in pendenza del giudizio di costituzionalità lo Statuto non verrà né promulgato, né pubblicato.

Infine, dalla sentenza C. cost., 30.11.2005, n. 445 si evince chiaramente l’assoluta indisponibilità da parte regionale della procedura referendaria e la necessaria coincidenza ed omogeneità tra le due deliberazioni consiliari dello Statuto e il testo sottoposto al vaglio referendario.

Esclusività del controllo preventivo in via di azione

La giurisprudenza costituzionale sul procedimento di formazione dello Statuto perviene dunque a sostanzialmente riconoscere allo stesso una posizione di vertice nel sistema delle fonti regionali. Così, in ragione dei peculiari contenuti statutari e della posizione rivestita dallo Statuto nel sistema delle fonti, solo per questo permane, in via esclusiva, «uno speciale controllo preventivo di legittimità costituzionale», non potendo naturalmente venire successivamente impugnato entro i sessanta giorni dalla pubblicazione, secondo il regime di cui all’art. 127 Cost. contemplato per le «ordinarie leggi regionali».

Il che, invece, si è puntualmente verificato con due ricorsi governativi dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale, poiché «proposti non già nell’ambito del procedimento di controllo preventivo di cui all’art. 123, secondo comma, Cost., ma nell’esercizio del potere che l’art. 127, primo comma, Cost. riconosce al Governo di impugnare a posteriori le leggi regionali». Sarebbe evidente che «l’esplicita previsione di uno speciale e meno favorevole (perché preventivo) sistema di controllo sulla legge statutaria comporta che a questa legge, una volta promulgata e pubblicata nel Bollettino Ufficiale, non possa applicarsi anche il controllo successivo previsto per le altre leggi regionali dall’art. 127, primo comma, Cost., (…)». D’altra parte, sarebbe il disegno costituzionale relativo alle forme di autonomia delle Regioni che, «nel silenzio delle disposizioni costituzionali, si pone come ostacolo ad una estensione di forme di controllo tipiche di una fonte legislativa ad un’altra», essendo peraltro il controllo preventivo, di cui al co. 2 art. 123 Cost., sempre reiterabile, ancorché nel rispetto dei termini di impugnazione, nelle ipotesi di reiterazioni di delibere statutarie (C. cost., 14.12.2005, n. 469).

La “tipicità” del meccanismo di impugnazione dello Statuto non esclude tuttavia la possibilità di fare ricorso al meccanismo residuale di contestazione della conformità a Costituzione degli atti, dell’attivazione del conflitto di attribuzione nei confronti della promulgazione e della successiva pubblicazione, con specifico riguardo a quei vizi non rilevabili mediante il procedimento di cui all’art. 123 Cost., analogamente a quanto già consentito sotto la vigenza del previgente art. 127 Cost. (C. cost., 20.1.1977, n. 40).

Il che si verifica (C. cost., 8.5.2009, n. 149) quando, a fronte della promulgazione statutaria, nonostante la mancata approvazione dello Statuto in sede referendaria, la Corte ribadisce che il controllo preventivo può «non consentire al Governo di denunciare l’intero spettro di vizi che possono, in ipotesi, inficiare la legge statutaria». Si tratta del caso in cui «la lesione si consumi per effetto dell’adozione dell’atto di promulgazione che determini una autonoma e successiva violazione delle norme ad esso sovraordinate».

Lo Stato assumerebbe così, anche con riguardo al procedimento di approvazione e di modifica degli statuti regionali, la qualità di «garante della “istanza unitaria” che, (…) (sentenza n. 274 del 2003), connota il pluralismo istituzionale della Repubblica, indirizzandolo verso l’osservanza della Costituzione». È da precisare peraltro che nella procedura di adozione dello Statuto, «la configurazione di un controllo preventivo azionabile dal Governo comprova la sussistenza in capo al medesimo di un interesse a preservare la supremazia delle previsioni contenute nello statuto (…) dalle lesioni che il procedimento regionale di approvazione o di modifica dello statuto autonomo possa infliggere loro». Interesse che non si esaurisce con lo spirare dei termini previsti per sollevare questione di legittimità costituzionale sul testo della legge statutaria, quando il vizio d’illegittimità sopraggiunga in una fase ulteriore del procedimento e si consolidi a seguito dell’atto di promulgazione, ma anzi «si proietta, viceversa, anche su tale fase, in relazione alla quale è il conflitto di attribuzione tra enti ad offrirsi quale strumento costituzionale per garantirne la tutela, preservando così la competenza dello Stato ad impedire che entrino in vigore norme statutarie costituzionalmente illegittime» (C. cost. 149/2009).

Configurabilità di una pluralità di delibere statutarie

Per quanto concerne il tipo di deliberazione statutaria che deve essere assunta dalla Regione – soprattutto in occasione della prima approvazione – se in sostanza può essere disposta una modifica soltanto parziale dello Statuto, posto che l’art. 123 Cost. parla di «approvare e modificare lo statuto», oppure si rende necessaria l’approvazione di uno Statuto organico. Rimanendo così vietato alla Regione emendare con delibera parziale lo Statuto approvato con legge statale sotto la vigenza del vecchio art. 123 Cost., la Corte costituzionale premette che ora lo Statuto può essere modificato unicamente con legge regionale, nel rispetto della peculiare procedura di cui si è dato conto. Ne deriva che se le vecchie disposizioni statutarie «sono destinate a sopravvivere in tutto o in parte e per un periodo transitorio più o meno lungo, ciò accade per una scelta ascrivibile alla Regione». Cosicché, il vecchio contenuto degli statuti risultante dalle leggi statali di approvazione e quello nuovo, che prende vita nelle deliberazioni regionali statutarie, vengono unificati dal potere attribuito alle sole Regioni di disporne. Il che «li rende, nel loro insieme e senza possibilità alcuna di distinguerli in ragione della diversa provenienza, espressione di autonomia» (C. cost. n. 304/2012).

Del resto, nonostante i vecchi Statuti fossero formalmente imputabili allo Stato ed incontrassero limiti assai più incisivi, non costituivano comunque «pura espressione di potestà statale», ma «nella sostanza», «una manifestazione di autonomia regionale», ancorché, «le norme in essi contenute non erano interamente disponibili dalle Regioni» (C. cost. n. 304/2012).

A ciò si aggiunga che «una limitazione tanto grave della potestà normativa regionale di grado più elevato, che resterebbe paralizzata finché non prendesse forma nella approvazione di un testo integralmente sostitutivo di quello vigente, non potrebbe certo essere affermata argomentando da presunti inconvenienti pratici derivanti dall’esercizio frazionato dell’autonomia statutaria». In sostanza, «in assenza di statuizioni costituzionali esplicite che siano dirette a limitarne la portata, il conferimento alle Regioni di tale autonomia non può non incorporare il potere di determinarne le modalità ed i tempi di esercizio» (C. cost. n. 304/2012).

Ciò che qui particolarmente rileva è il dato che, con specifico riguardo al procedimento di formazione dello Statuto, la Consulta non esita, quanto ad inquadramento di quella fonte nel sistema regionale, a parlare di «potestà normativa regionale di grado più elevato», che in quanto tale non ammetterebbe alcuna limitazione ulteriore rispetto a quelle esplicitate costituzionalmente.

Spostando tuttavia lo sguardo sulla tematica, forse più complessa e articolata, dei contenuti statutari, ci si rende conto che la gerarchia potrebbe lasciare spazio alla competenza, o meglio, al combinato concorso di entrambi i criteri, poiché, con ogni probabilità, quel ruolo di sovraordinazione dello Statuto potrebbe esaurirsi nell’ambito delle materie di necessaria competenza statutaria, di cui al co. 1, art. 123 Cost., la delimitazione delle quali ha necessitato un “intervento di concretizzazione” per via giurisprudenziale.

Il contenuto dello Statuto

La forma di governo

Per questo aspetto, la nuova formulazione del co. 1 dell’art. 123 Cost. si discosta dalla precedente proprio con specifico riguardo ai profili organizzativi e a quelli relativi all’assetto istituzionale. Resta invariata la seconda parte, a tenore della quale, «lo statuto regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti», mentre viene radicalmente modificato il primo periodo del co. 1, ove viene meno il riferimento all’armonia «con le leggi della Repubblica», restando ferma la sola armonia «con la Costituzione» e ove si dispone che lo Statuto deve stabilire «i princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento» e fissare «la forma di governo» della Regione.

Sempre sotto il profilo organizzativo, l’ult. co. dell’art. 123 Cost. dispone che «lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali», creando una sorta di seconda “Camera” di rappresentanza territoriale, con funzioni meramente consultive.

Il contenuto statutario più rilevante è sicuramente quello che attiene alla definizione della forma di governo regionale, alla conseguente possibilità di derogare all’elezione diretta del Presidente di Regione e alla definizione dei margini di derogabilità del cd. simul stabunt simul cadent.

A tale riguardo, la Corte costituzionale evidenzia da subito che il vincolo del simul simul, contemplato dall’art. 126, co. 3 Cost. e dall’art. 5, co. 2, lett. b), l. cost. 1/1999, per la fase transitoria, è volto a garantire la stabilità degli esecutivi regionali. Soltanto nel momento in cui le Regioni compiranno la scelta in ordine alla loro forma di governo, potranno esercitare la facoltà di eventualmente optare per un sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale diverso dal suffragio universale diretto (art. 122 Cost., ult. co.), sciogliendosi così dal vincolo costituzionale di cui all’art. 126 Cost., co. 3 (C. cost. n. 304/2012), con conseguente derogabilità del simul simul unicamente in forza della disciplina a regime.

Più chiara è la pronuncia C. cost., 13.1.2004, n. 2, ove la Consulta premette che dall’esame dei lavori preparatori della l. cost. 1/1999 e dalla sua titolazione si evidenzia con sicurezza la volontà di imporre la scelta dell’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente di Regione «nella esplicita speranza di eliminare in tal modo la instabilità nella gestione politica delle Regioni e quindi di rafforzare il peso delle istituzioni regionali» (C. cost. n. 2/2004). Da qui discende la “sostanziale” immodificabilità del modello costituzionalmente “proposto”, con l’eccezione per taluni profili di non particolare rilievo, qualora si opti per l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente di Regione.

La scelta per una radicale semplificazione del sistema politico a livello regionale e per l’unificazione dello schieramento maggioritario intorno alla figura del Presidente della Giunta può essere «legittimamente sostituita da altri modelli di organizzazione dei rapporti fra corpo elettorale, consiglieri regionali e Presidente della Giunta, che in sede di elaborazione statutaria possano essere considerati più idonei a meglio rappresentare le diverse realtà sociali e territoriali delle nostre regioni o anche più adatti per alcuni sistemi politici regionali», tuttavia, tale possibilità «trova un limite del tutto evidente nella volontà del legislatore di revisione costituzionale di prevedere ipotesi di elezione diretta nel solo caso del Presidente della Giunta, al cui ruolo personale di mantenimento dell’unità dell’indirizzo politico e amministrativo si conferisce ampio credito, tanto da affidargli, (…), anche alcuni decisivi poteri politici» (C. cost. n. 2/2004), ma soprattutto, si tratta di margini di derogabilità che si muovono al di fuori della previsione dell’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale.

La allocazione della potestà regolamentare

Nelle locuzioni “forma di governo” e “principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” non vi rientrano solo i rapporti tra gli organi di vertice della Regione e la allocazione tra questi dei diversi poteri e delle diverse competenze, ma una pluralità di altre previsioni, individuate volta per volta dalla giurisprudenza costituzionale, che variamente incidono sugli assetti organizzativi regionali.

Così, se il testo previgente del co. 2 art. 121 Cost. attribuiva (dunque stabiliva una riserva costituzionale) al Consiglio regionale, non solo la potestà legislativa, ma anche le potestà «regolamentari attribuite alla Regione», ora, nel mutato assetto istituzionale, stante il silenzio sul punto del vigente co. 2, art. 121 Cost., la Corte costituzionale ha precisato che tale modifica ha il solo effetto di «eliminare la relativa riserva di competenza», consentendo alla Regione, tramite l’opzione statutaria, di operare «una diversa scelta organizzativa» (C. cost., 5.4.2002, n. 87).

Non mancava invero chi ha desunto dal venir meno di detta riserva di competenza, e soprattutto dal riferimento di cui al co. 4, art. 121 Cost., stando al quale il Presidente della Regione «promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali», che la titolarità della potestà regolamentare fosse transitata automaticamente in capo alla Giunta regionale. La Consulta precisò, invece, che, stante l’attinenza di tale tematica «ai rapporti tra gli organi costituzionali della Regione», trattandosi dunque di allocazione e distribuzione di competenza tra i medesimi, «tale scelta non può che essere contenuta in una disposizione dello statuto regionale», modificativa di quella vigente secondo il sistema previgente. Con la conseguenza che, fino alla modifica statutaria, «vale la distribuzione delle competenze normative già stabilita nello statuto», evidentemente, di per sé non incompatibile con il nuovo art. 121 Cost. (C. cost., 21.10.2003, n. 313).

Ciò che rileva in questa sede è che il riparto di competenze così stabilito dallo Statuto non ammette modifiche o deroghe ad opera di fonti diverse, nemmeno per esigenze di rapidità, che dunque «non può essere ragione sufficiente ad alterare l’ordine delle competenze stabilito nello statuto, che, nell’ordinamento regionale, costituisce fonte sovraordinata rispetto alla legge regionale». Di conseguenza, la legge che dispone in senso contrario «si pone in contrasto con lo statuto» e «viola indirettamente l’art. 123 Cost.» (C. cost., 24.3.2006, n. 119).

La prorogatio degli organi regionali

Altro contenuto statutario è la «disciplina della eventuale prorogatio degli organi elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento o dimissioni, e degli eventuali limiti dell’attività degli organi prorogati», in quanto «parte della disciplina della forma di governo regionale» (C. cost., 5.6.2003, n. 196). La Consulta non accoglie l’impostazione secondo la quale la competenza in argomento sarebbe della «legge statale, cui spetta, ai sensi dell’art. 122, primo comma, Cost. stabilire la durata degli organi elettivi regionali», poiché, l’istituto della prorogatio, a differenza della vera e propria proroga, non incide sulla durata del mandato elettivo, ma «riguarda solo l’esercizio dei poteri nell’intervallo fra la scadenza, naturale o anticipata, di tale mandato, e l’entrata in carica del nuovo organo eletto» (C. cost., 26.2.2010, n. 68).

Consulte statutarie o Organi di garanzia statutaria

Non sono mancate specifiche iniziative statutarie che avrebbero potuto assicurare una sicura prevalenza dello Statuto nel sistema delle fonti regionali. Talune Regioni hanno infatti istituito organi con una generica funzione di verifica della conformità della legislazione regionale allo Statuto e di interpretazione (ultima) delle norme statutarie, con «funzioni di garanzia e consulenza sull’applicazione e l’interpretazione delle norme statutarie» (C. cost., 13.6.2008, n. 200), variamente denominati, a seconda dei casi, come Consulte statutarie, Organi di garanzia statutaria, oppure Commissioni di garanzia statutaria.

Quanto ai poteri esercitabili da tali organi, anche di fronte a norme statutarie generiche (cfr., artt. 81 e 82 Statuto Umbria), che configurano solo nelle linee generali l’organo e le relative funzioni, facendo successivo rinvio ad una legge regionale, da approvarsi a maggioranza assoluta, di definizione delle condizioni, delle forme e dei termini per lo svolgimento delle funzioni, la Corte costituzionale ne ha significativamente circoscritto le competenze «ad un potere consultivo», da esplicarsi attraverso «semplici pareri, che, se negativi sul piano della conformità statutaria, determinano come conseguenza il solo obbligo di riesame, senza che siano previste maggioranze qualificate ed anche senza vincolo in ordine ad alcuna modifica delle disposizioni normative interessate» (C. cost., 6.12.2004, n. 378).

Il che ha escluso la configurabilità di una qualsiasi ipotesi di (parvenza) di controllo di conformità allo Statuto della legge regionale, che sarebbe stato in evidente contrasto con il principio di unicità del controllo di legittimità costituzionale in capo alla Corte costituzionale. Così, con riguardo allo Statuto della Regione Abruzzo, la Consulta ha precisato che la mera previsione di un organo di garanzia statutaria non è in contrasto con la Costituzione, poiché occorre «valutare, nei singoli specifici profili, la compatibilità delle norme attributive allo stesso di competenze determinate» (C. cost., 20.1.2006, n. 12). In sostanza, «ogni valutazione sulle leggi regionali promulgate o sui regolamenti emanati appartiene alla competenza esclusiva rispettivamente della Corte costituzionale e dei giudici comuni, ordinari e amministrativi» (C. cost. n. 200/2008).

I limiti alla potestà statutaria

I contenuti statutari di principio

Nonostante una certa mitigazione dei toni da parte del giudice costituzionale con riguardo alla natura dello Statuto, in punto di disamina dei contenuti statutari, si continua a considerarlo come una «speciale legge regionale caratterizzata da una particolare procedura di adozione e di controllo (cfr. sentenza n. 304 del 2002) », «meglio definita nella ampiezza delle materie ad essa riservate» (C. cost. n. 2/2004).

In sostanza, la Regione disporrebbe di un autonomo potere normativo per la configurazione di un ordinamento interno adeguato alle accresciute responsabilità delineate dal Titolo V, Parte II, della Costituzione ed alle attese di un’istituzione regionale decisamente migliorata sul piano della funzionalità e della sua stessa democraticità. A ciò aggiungasi che, con l’eliminazione della approvazione dello Statuto regionale da parte del Parlamento, «i limiti a questa rilevante autonomia normativa possono derivare solo da norme chiaramente deducibili dalla Costituzione», poiché, l’autonomia statutaria non è comprimibile «in mancanza di una disciplina costituzionale chiaramente riconoscibile» o «tramite non controllabili inferenze e deduzioni da concetti generali, assunti a priori» (C. cost. n. 313/2003).

Così, quanto ai limiti statutari costituzionalmente deducibili, la Corte costituzionale ha chiarito che gli statuti regionali non solo devono rispettare puntualmente ogni disposizione della Costituzione, ma devono anche «rispettarne lo spirito», in nome della costituzionalmente necessaria «armonia con la Costituzione» (C. cost. n. 304/2012). Ovvero, devono essere in armonia con i precetti e i principi tutti ricavabili dalla Costituzione (C. cost. n. 196/2003).

L’esigenza di rendere lo Statuto “armonico” con la Costituzione impone «una lettura particolarmente attenta dei rapporti e dei confini fra le diverse aree normative affidate agli statuti o alle altre fonti legislative statali o regionali», senza presumere la soluzione del problema interpretativo sulla base della sola lettura di una singola disposizione costituzionale (C. cost. n. 2/2004).

Ne deriva che, per quanto lo Statuto sia deliberato secondo una procedura aggravata, ciò non è sufficiente a derogare la Costituzione, fatta eccezione per le parti in cui è la stessa Costituzione ad ammettere la deroga.

In sostanza, l’assoggettamento dello Statuto al solo limite della «armonia con la Costituzione» non significa certamente che il limite di legittimità degli Statuti regionali sia divenuto più flebile, coincidente con i «valori di fondo che ispirano la Costituzione», e non già con il rispetto di tutte le disposizioni costituzionali, poiché, «il riferimento all’armonia, lungi dal depotenziarla, rinsalda l’esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione», in quanto mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, «ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito» (C. cost. n. 304/2012).

È solo con le note sentenze sulle parti programmatiche, di principio, di enunciazione di valori degli Statuti che la Corte costituzionale perviene ad un forte ridimensionamento del ruolo e della natura di quella fonte nel sistema regionale (C. cost. 2 e 6.12.2004, nn. 372, 378 e 379).

È da precisare che la Consulta non rinnega la propria giurisprudenza sulla possibilità di distinguere tra contenuto «necessario» ed «eventuale» dello Statuto (C. cost., 3.3.1972, n. 40), con la conseguente possibilità per lo stesso di recare indicazioni di obiettivi prioritari dell’attività regionale, incidenti su materie “anche” eccedenti la sfera di attribuzione regionale, con lo scopo di legittimare la Regione come ente esponenziale della collettività di riferimento e del complesso dei relativi interessi ed aspettative. Quegli interessi possono essere perseguiti attraverso l’esercizio della competenza legislativa, nonché degli altri poteri conferiti alle Regioni dalla Costituzione, che legittimerebbero una presenza politica della Regione con riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale (C. cost., 21.7.1988, n. 829).

Ciò che rileva successivamente la Consulta è che resta opinabile la «misura dell’efficacia giuridica» di tali proclamazioni (C. cost. n. 2/2004), precisando, con specifico riguardo alle enunciazioni al suo esame, che «anche se materialmente inserite in un atto-fonte» non può essere ad esse riconosciuta alcuna efficacia giuridica, «collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale» (C. cost. n. 372/2004).

Del resto, con specifico riferimento alla natura degli Statuti, la Corte precisa che analoghe proclamazioni di obiettivi e di impegni «non possono certo essere assimilate alle cd. norme programmatiche della Costituzione», poiché qui «non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali a competenza riservata e specializzata», ovvero di «statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione», cosicché, le enunciazioni statutarie in esame potranno avere una funzione «di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa» (C. cost. n. 372/2004).

La difesa di competenze del legislatore regionale?

Questa tendenza di sostanziale “degradazione giuridica” dello Statuto pare trovare conferma nelle due successive pronunce, quando le previsioni statutarie delle Regioni Umbria ed Emilia-Romagna di statuizione dell’incompatibilità tra la carica di assessore e consigliere regionale vengono dichiarate incostituzionali per aver invaso un ambito di competenza del legislatore regionale (C. cost. nn. 378/2004 e 379/2004), con la conseguente – apparente e definitiva – riconduzione del rapporto tra Statuto e legge regionale al regime della competenza.

Invero, l’attenta lettura di quelle pronunce evidenzia la salvaguardia da parte della Corte di uno specifico ambito di competenza costituzionalmente tutelato a favore del legislatore regionale. Tra l’altro, il solo ambito che entra in stretta correlazione con la principale competenza statutaria, quella di definizione della forma di governo regionale, ovvero, la materia di cui al co. 1, art. 122 Cost., riservata al legislatore regionale, nel rispetto dei principi fondamentali posti con legge dello Stato. La Consulta non nega infatti che «le scelte in tema di incompatibilità tra incarico di componente della Giunta regionale e di consigliere regionale possono essere originate da opzioni statutarie in tema di forma di governo», tuttavia, non si può non ricordare che il riconoscimento allo Statuto del potere di definire la forma di governo regionale è accompagnato proprio dalla riserva al legislatore regionale e a quello statale della definizione della materia di cui al co. 1, art. 122 Cost. (C. cost. n. 378/2004).

Non si può non rilevare inoltre che se si pone attenzione alla forte eterogeneità delle materie oggetto del giudizio della Corte recanti indicazioni di principi, valori ed obiettivi da conseguire, rispetto all’impianto delle competenze regionali, la stessa definizione dello Statuto quale mera fonte regionale «a competenza riservata e specializzata» potrebbe essere non poco ridimensionata. A mero titolo esemplificativo, vi si fa riferimento all’estensione del diritto di voto agli immigrati; alla previsione per cui la Regione persegue, tra le finalità prioritarie: «il rispetto dell’equilibrio ecologico, la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto degli animali», nonché «la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico»; «la promozione dello sviluppo economico e di un contesto favorevole alla competitività delle imprese, basato sull’innovazione, la ricerca e la formazione, nel rispetto dei principi di coesione sociale e di sostenibilità dell’ambiente»; «la valorizzazione della libertà di iniziativa economica pubblica e privata, del ruolo e della responsabilità sociale delle imprese»; «la promozione della cooperazione come strumento di democrazia economica e di sviluppo sociale, favorendone il potenziamento con i mezzi più idonei».

Di fronte ai dubbi del ricorrente, che temeva che quelle “norme” potessero costituire «la base statutaria di future leggi regionali in contrasto con la competenza legislativa esclusiva dello Stato», appare evidente che l’assoluta estraneità di quegli ambiti materiali dalle competenze regionali non poteva che spingere la Corte costituzionale ad escludere ogni portata precettiva di previsioni del genere, restando comunque ad essa impedita la possibilità di pervenire all’immediata declaratoria di incostituzionalità, in ragione della esplicitata portata di mero principio di quelle enunciazioni.

Precettività della gerarchia fondata sulla competenza

Invero, un importante chiarimento sulla natura degli Statuti regionali pare trarsi da un obiter dictum contenuto nella sentenza C. cost., 5.4.2012, n. 81 (cfr., Belletti, M., “Torniamo allo Statuto”regionale. La rappresentanza di genere nelle Giunte regionali tra atto politico, atto di alta amministrazione e immediata precettività delle disposizioni statutarie, in Le Regioni, 2012, 5-6, 1016 ss.), ove, a fronte di una proclamazione statutaria di principio, di natura programmatica, riguardante l’obiettivo di perseguire un’“equilibrata” presenza di entrambi i generi nelle Giunte regionali, per la quale ben potevano essere avanzate perplessità in ordine alla valenza giuridica, la Corte non dubita invece del carattere precettivo e conformativo di quelle enunciazioni, rilevando anzi che «gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo». È il legislatore che predetermina canoni di legalità alla politica, ai quali questa «deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto» (C. cost. n. 81/2012).

In sostanza, «nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate». Così, nel caso all’esame della Corte, il legislatore statutario, nell’esercizio dell’autonomia politica ad esso accordata dall’art. 123 Cost., «ha ritenuto di dover delimitare il libero apprezzamento del Presidente della Giunta regionale nella scelta degli assessori, stabilendo alcuni vincoli di carattere generale». Ne deriva che «l’atto di nomina degli assessori risulterà, dunque, sindacabile in sede giurisdizionale, se e in quanto abbia violato una norma giuridica». Il che non altera, di per sé, la natura politica del potere esercitato dal Presidente con l’atto di nomina degli assessori, «ma piuttosto ne delimita lo spazio di azione» (C. cost. n. 81/2012).

Posto che tale vincolo di natura giuridica, opponibile addirittura ad un’attività di tipo politico/discrezionale, discende dallo Statuto regionale, o meglio, da una disciplina di principio, più o meno riconducibile al contenuto necessario dello stesso, diviene più difficile sostenere che la natura di quell’atto sia di mera fonte regionale «a competenza riservata e specializzata», e non già di fonte di vertice nel sistema delle fonti regionali (in questo senso, cfr., Olivetti, M., Nuovi statuti e forma di governo delle Regioni. Verso le Costituzioni regionali?, Bologna, 2002 e Belletti, M., Forma di governo, Presidente di Regione e Giunta regionale tra giurisprudenza costituzionale e attuazione statutaria, in Belletti, M.- Mastragostino, F.-Mezzetti, L. (a cura di), Lineamenti di diritto costituzionale della Regione Emilia-Romagna, Torino, 2016, 55 ss.), quanto meno con riguardo al vasto (e indeterminabile) ambito materiale incidente sulla forma di governo regionale e sui principi fondamentali di organizzazione e funzionamento (cfr., Salazar, C., Norme statutarie in materia di pari opportunità e il conflitto tra Stato e Regioni, in Quaderni Costituzionali, 2012, 1, 118 ss). Fatti salvi naturalmente gli ambiti espressamente e costituzionalmente riservati alla legge regionale (art. 122, co. 1, Cost.) e i casi di palese estraneità delle previsioni di principio dagli ambiti di competenza regionale (C. cost. nn. 372/2004, 378/2004 e 379/2004).

Non è un caso infatti che proprio in un ambito ove è delineata una riserva di competenza in capo al legislatore regionale, la materia elettorale, la Corte costituzionale faccia riferimento sia alla gerarchia, che alla competenza per delineare i rapporti tra Statuto e legge regionale (C. cost., 8.6.2011, n. 188). Non si può, infatti, negare che competenza e gerarchia concorrano nella definizione della natura dello Statuto e della sua collocazione nel sistema delle fonti, ancorché non manchino fattori che determinano una progressiva erosione di tradizionali ambiti di competenza statutaria, quali la vocazione espansiva di talune competenze legislative – anche statali – come, a titolo esemplificativo, il coordinamento della finanza pubblica (cfr., Gianfrancesco, E., Gli Statuti ordinari nel sistema delle fonti regionali, in Osservatorio sulle fonti, fasc. 2/2013, 2 ss. e 51 ss.), che ha inciso finanche su materie sicuramente riconducibili alla forma di governo regionale, come, ad esempio, la definizione del numero dei consiglieri regionali (C. cost., 20.7.2012, n. 198) (cfr., Olivetti, M., Il colpo di grazia. L’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie dopo la sentenza n. 198 del 2012, in Amministrazione in cammino, 14.1.2013).

Fonti normative

Artt. 122 e 123 Cost.; art. 116 Cost.; l. cost. n. 1/1999; l. cost. n. 2/2001; art. 274, d.lgs. n. 267/2000; art. 9, l. n. 131/2003.

Bibliografia essenziale

Belletti, M., “Torniamo allo Statuto”regionale. La rappresentanza di genere nelle Giunte regionali tra atto politico, atto di alta amministrazione e immediata precettività delle disposizioni statutarie, in Le Regioni, 2012, 5-6, 1016 ss.; Belletti, M., Forma di governo, Presidente di Regione e Giunta regionale tra giurisprudenza costituzionale e attuazione statutaria, in Belletti, M.-Mastragostino, F.-Mezzetti, L. (a cura di), Lineamenti di diritto costituzionale della Regione Emilia-Romagna, Torino, 2016, 55 ss.; D’Atena, A., La nuova autonomia statutaria delle Regioni, in Rassegna parlamentare, 2000, 599 ss.; Gianfrancesco, E., Gli Statuti ordinari nel sistema delle fonti regionali, in Osservatorio sulle fonti, 2013, 2; Olivetti, M., Nuovi statuti e forma di governo delle Regioni. Verso le Costituzioni regionali?, Bologna, 2002; Olivetti, M., La forma di governo regionale dopo la sentenza n. 2 del 2004, in Le Istituzioni del federalismo, 2004, 435 ss.; Olivetti, M., Il colpo di grazia. L’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie dopo la sentenza n. 198 del 2012, in Amministrazione in cammino, 14.1.2013; Salazar, C., Norme statutarie in materia di pari opportunità e il conflitto tra Stato e Regioni, in Quaderni Costituzionali, 2012, 1, 118 ss.

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