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Dizionario di dottrina
sociale della Chiesa

LE COSE NUOVE DEL XXI SECOLO

Fascicolo 2021, 1 – Gennaio-Marzo 2021

Prima pubblicazione online: Marzo 2021

ISSN 2784-8884

DOI 10.26350/dizdott_000033

Shareholders e stakeholders Shareholders and stakeholders

di Matteo Pedrini

Abstract:

ENGLISH

Nella pratica manageriale l’uso di termini come stakeholder e shareholder è sempre più comune. Ma qual è il loro vero ruolo nell’attuale modello di business, e quale il più appropriato? Per affrontare adeguatamente questi problemi, dovremmo necessariamente confrontarci con l’origine e la natura stessa delle imprese, il loro ruolo nella società e il loro obiettivo finale.

Parole chiave: Stakeholder, Shareholder, Profitto, Bene comune, Valore condiviso
ERC: SH1_10

ITALIANO

In the managerial practice the use of terms as stakeholder and shareholder is increasingly common. But which is their actual role in the current business model, and which is the most appropriate? To address properly these questions, we should necessarily confront the origin and the very nature of enterprises, their role in our society and their ultimate goal.

Keywords: Stakeholder, Shareholder, Profit, Common good, Shared value
ERC: SH1_10

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L’impresa e gli interessi in gioco

Negli ultimi anni si è assistito a un intenso confronto attorno a quale sia l’opportuno ruolo da attribuire a shareholders e stakeholders in ambito aziendale. Col passare del tempo i due termini sono entrati a pieno titolo nel linguaggio quotidiano d’impresa e hanno oggi un significato chiaro e condiviso. Per tutti coloro che operano in azienda utilizzare il termine shareholders significa riferirsi a coloro che sostengono il rischio d’impresa e mettono a disposizione le risorse finanziarie utili a realizzare le attività aziendali. Parlare di stakeholders indica il più ampio insieme di soggetti che contribuiscono allo svolgimento dell’attività d’impresa e, conseguentemente, hanno un interesse (non necessariamente economico-finanziario) in essa.

La discussione attorno al ruolo di shareholders e stakeholders in azienda implica una più profonda riflessione sul nesso che lega un’impresa alla società in cui opera e sul fine ultimo dell’attività imprenditoriale. Quale contributo deve dare un’azienda alla società in cui opera? Quali sono gli interessi e le attese che essa deve soddisfare? Sebbene queste domande siano semplici, la risposta ha evidenti implicazioni sia per le imprese sia per la più ampia società. Alcuni ricercatori (e imprenditori), con riflessioni che si fondano sul concetto di libertà di mercato, hanno sostenuto l’idea che un’impresa debba essere condotta nell’esclusivo interesse degli shareholders e che, conseguentemente, il fine ultimo delle attività d’impresa sia la massimizzazione del profitto. In questa concezione chi ha la responsabilità del governo di un’azienda deve ricercare soluzioni che, nei limiti definiti dalla legge, assicurino il maggior beneficio possibile per gli shareholders, sacrificando dove necessario le attese di altri soggetti. Questa posizione viene identificata come shareholder view ed è tipicamente associata ad alcune posizioni espresse dall’economista Milton Friedman (1962, 1970).

Altri studiosi (e imprenditori), partendo da considerazioni di natura antropologica ed etica, hanno sostenuto la necessità che un’impresa sia orientata al generare benefici per il più articolato insieme di stakeholders, ricercando un dinamico e non semplice contemperamento delle differenti attese attorno all’azienda. Secondo questa prospettiva, anche se consentite dalla legge, le scelte compiute nell’interesse degli shareholders non sono legittime, se non sono contemporaneamente rispettose delle attese di tutti gli stakeholders. Questa seconda posizione viene identificata come stakeholder view, e ha visto in Robert Edward Freeman (1982, 2004) uno dei principali esponenti.

Il riconoscimento di una convergenza

Per anni si è assistito a una contrapposizione tra le due visioni, frutto di un’eccessiva semplificazione della relazione che lega un’impresa alla società in cui opera e della sottovalutazione degli indissolubili legami esistenti tra interessi degli shareholders e degli stakeholders. È infatti facile intuire come senza soddisfare le attese degli stakeholders un’azienda possa perdere la cosiddetta “licenza di operare”, perdendo il supporto da parte di tutti coloro che a vario titolo collaborano in azienda e, conseguentemente, perdendo le condizioni minime necessarie per la massimizzazione del profitto a vantaggio degli shareholders. Allo stesso tempo, è altrettanto immediato constatare come senza soddisfare le attese economico-finanziarie degli shareholders, un’azienda rischi di non disporre delle risorse finanziarie necessarie a operare e potrebbe nel tempo non essere più in condizione di svolgere le proprie attività, con conseguenti ripercussioni negative sugli stakeholders.

La progressiva presa di coscienza dei legami esistenti tra shareholders e stakeholders ha portato nel tempo le due visioni a una progressiva convergenza. In particolare, i sostenitori dell’economia di mercato hanno manifestato un’apertura alla considerazione delle attese degli stakeholders, evidenziando come la loro soddisfazione possa essere strumentale alla massimizzazione del profitto aziendale. Uno dei principali contributi a riguardo è stato fornito da Porter e Kramer (2011), i quali hanno sostenuto come l’obiettivo fondamentale di un’impresa non possa essere la creazione di valore per gli azionisti, ma debba essere piuttosto la creazione di un “valore condiviso”. In questa visione, un’impresa sarà di successo nella misura in cui avrà la capacità di generare il massimo valore (economico-finanziario) indipendentemente dagli stakeholders a cui tale valore viene distribuito. È quindi interesse degli shareholders operare secondo la prospettiva del valore condiviso, perché tanto maggiore sarà il valore creato (la “torta” da spartire), tanto più grande sarà la ricchezza che verrà destinata agli shareholders (la “fetta di torta”). Sebbene la visione proposta non concili pienamente la stakeholders e shareholders e subordini gli interessi economici degli stakeholders alle aspettative degli shareholders, ai due autori deve essere riconosciuto il merito di aver avvicinato molte delle imprese orientate alla sola massimizzazione del profitto a una più attenta considerazione delle attese degli stakeholders aziendali, orientamento oggi sempre più condiviso tra chi opera con responsabilità di vertice nelle aziende.

Impresa, stakeholders e bene comune

Nella dottrina sociale della chiesa i riferimenti ai termini stakeholder e shareholders sono piuttosto limitati. Un principale contributo a riguardo è stato offerto da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, in cui ha ribadito come l’attenzione ai soli shareholders sia all’origine di distorsioni economiche e ha ribadito la necessità che i vertici aziendali assumano le proprie decisioni prestando attenzione alle aspettative al più ampio gruppo degli stakeholder, identificati nei lavoratori, nei fornitori, nei consumatori, nell’ambiente naturale e della più ampia società (Caritas in veritate, 2009, 40). Ad ogni modo per comprendere appieno il ruolo degli stakeholder in un’impresa è utile comprendere quale sia la natura e la finalità attribuita dalle imprese nella stessa Dottrina sociale. A più riprese è stato ribadito come la ragion d’essere delle aziende consista nel fornire un positivo contributo allo “sviluppo economico integrale” della società. Con ciò viene implicitamente affermata l’inadeguatezza di un’impresa posta a esclusivo servizio di pochi e del lasciare indietro i più deboli e poveri per soddisfare le attese economiche degli shareholders, riaffermando come lo sviluppo “non dev’essere orientato all’accumulazione crescente di pochi, bensì deve assicurare «i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli» (Fratelli tutti, 2020, 122). Nel Magistero sociale dei Papi viene inoltre evidenziato come l’agire dell’attività imprenditoriale debba essere orientato a favorire uno sviluppo che “non deve essere inteso in un modo esclusivamente economico, ma in senso integralmente umano” (Centesimus annus, 1991, 20), di fatto segnalando l’inadeguatezza di una concezione d’impresa fondata sulla considerazione dei solo gli aspetti economici e di gestire delle relazioni secondo un approccio contrattuale.

In merito alla natura dell’attività economica, la dottrina sociale della Chiesa ha evidenziato come il fine dell’impresa “non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa” (Centesimus annus, 35). In tale concezione d’impresa viene quindi ribadita la necessità che nell’attività economica trovi adeguata considerazione il complesso insieme di interessi e bisogni di tutti gli stakeholders, essendo essi parte della comunità di persone che è la stessa essenza dell’impresa. Nessuna persona di nessun gruppo di stakeholders dovrebbe essere esclusa dai progressi (non solo economici) prodotti dall’azienda, essendo ogni persona a immagine e somiglianza di Dio. Ed è proprio nella misura in cui l’impresa è capace di “produrre ricchezza” e “migliorare il mondo per tutti” che l’attività economica dimostra la propria originale nobile dimensione (Fratelli tutti, 122).

La dottrina sociale della Chiesa ha più volte ricordato come l’autentica finalità delle imprese sia la contribuzione al bene comune, inteso come “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente” (Gaudium et spes, 1966, 26). La necessaria evoluzione e adattamento dell’impresa al contesto esterno non può in nessun caso comportare la negazione del fine originale dell’impresa e della sua dimensione collettiva e sociale. È stato evidenziato nella dottrina sociale della Chiesa come la conduzione di un’impresa nella sola prospettiva del profitto sia un fenomeno distorsivo e di come l’affermazione in passato di tale modello sia all’origine di una situazione in cui “le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l’impresa. Vecchie modalità della vita imprenditoriale vengono meno, ma altre promettenti si profilano all’orizzonte” (Caritas in veritate, 40). Affermando la prevalenza del perseguimento di un bene comune sul soddisfacimento delle attese degli shareholders, non viene negata l’importanza della proprietà privata, riconosciuta come un diritto naturale, ma viene riaffermata la natura universale dei beni e la necessità di un loro utilizzo secondo logiche di condivisione reciproca e fratellanza universale. Tali principi sono validi nella vita dei singoli, delle famiglie e, a maggior ragione, devono trovare applicazione in ambito aziendale, dove le risorse trovano ampio e intenso utilizzo. Nelle imprese è quindi necessario che le risorse siano gestite secondo la più ampia condivisione e manifestazione di fratellanza, facendo in tal modo della partecipazione all’attività d’impresa un’occasione di crescita personale per l’imprenditore e per tutti i soggetti coinvolti, così come evidenziato con forza da Giovanni Paolo II nelle sue tre encicliche sociali (Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis, Centesimus annus). Alla luce di tali considerazioni chi governa l’organizzazione ha quindi la responsabilità di esercitare la propria autorità non come espressione di un mandato degli shareholders alla massimizzazione del profitto, ma come servizio per lo sviluppo e la costruzione del bene comune (che è bene di tutti e di ciascuno) e nella prospettiva di un’attenzione a tutti gli stakeholders aziendali.

Impresa, stakeholder e dignità umana

In azienda le decisioni devono essere spesso prese in condizione di complessità e di continuo dinamismo, e non è opera semplice assicurarne la coerenza con il fine del bene comune. A riguardo i vertici di un’impresa trovano nella dottrina sociale della Chiesa alcuni principi guida per adottare opportune scelte in ambito aziendale: il rispetto della dignità della persona umana e la sussidiarietà. Il Magistero sociale dei Papi, già a partire dalla Rerum novarum di Leone XIII nel 1891, associa gli ambiti del lavoro al rispetto della dignità della persona umana. Novant’anni più tardi Giovanni Paolo II nell’enciclica Laborem exercens argomenta la necessità che in azienda la dimensione soggettiva del lavoro, attinente alla persona e alla sua dignità, debba avere la preminenza su quella oggettiva e materiale, perché chi la pone in essere è l’uomo stesso, unico, irripetibile e creato ad immagine e somiglianza di Dio. Successivamente, nella Caritas in veritate, Benedetto XVI ha richiamato la necessità che in azienda sia promosso “un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità” (Caritas in veritate, 63). Il rispetto della dignità umana deve inoltre trovare anche manifestazione materiale in equi e giusti trattamenti dei soggetti coinvolti in azienda. Dal punto di vista economico ciò implica il garantire ai collaboratori giusti salari, ai clienti e fornitori giusti prezzi, giusti rendimenti per gli investitori e giuste imposte per la comunità e, più in generale, un giusto soddisfacimento delle attese dei differenti stakeholders. Non è infatti accettabile né verificata l’ipotesi che “ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo” (Evangelii gaudium, 54), ma serve che la crescita sia interpretata alla luce del principio di equità.

Il secondo elemento guida per l’operato di chi ha responsabilità in azienda è la necessità di agire secondo principio sussidiarietà. Applicare tale principio in un’impresa significa promuovere, tra tutti gli stakeholders coinvolti, il reciproco rispetto e la condivisione delle responsabilità, favorendo la possibilità per tutti di svilupparsi come persone e di sentirsi a tutti gli effetti dei “co-imprenditori”. In tale senso la responsabilizzazione e possibilità di sviluppo del singolo trova compimento nelle positive relazioni umane sperimentate in azienda, dove è possibile fare esperienza diretta di come “oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno” (Centesimus annus, 22).

Creatività e nuove forme d’impresa

Da una lettura del precedente paragrafo è facile constatare come i modelli d’impresa attualmente dominanti nel contesto economico siano distanti da quello proposto dalla dottrina sociale della Chiesa. Il modello aziendale della massimizzazione del profitto ha portato a imprese strutturate per essere macchine di produzione di ricchezza (economico-finanziaria) particolarmente efficienti, anche se spesso ciò avviene a discapito della dignità delle persone e favorendo inaccettabili disuguaglianze sociali. Allo stesso tempo il modello fondato nella stakeholder view ha trovato applicazione operativa in meccanismi di bilanciamento delle attese degli stakeholders, costringendo i vertici aziendali a identificare correte modalità per discriminare le attese meritevoli da quelle non meritevoli, di fatto assumendo come inevitabile la competizione tra stakeholders per la soddisfazione delle rispettive attese. Tale approccio, sebbene sia un avanzamento rispetto a una concezione di impresa come esclusivamente orientata al profitto, pone un significativo freno alla capacità generatrice e alla creatività umana. In aggiunta, l’identificazione degli stakeholders aziendali e la raccolta e valutazione delle loro attese è un’attività spesso complicata e non ancora pienamente codificata.

Ricercare il bilanciamento delle attese porta implicitamente ad accettare la sfida del superamento dei modelli di sviluppo esistenti per identificarne di nuovi capaci di superare l’apparente conflittualità di interessi tra stakeholders. In molti casi è infatti legittimo interrogarsi se sia vero che non esiste alcun modo per soddisfare a pieno a tutti gli stakeholders e pare opportuno domandarsi: “Esiste una nuova strada? È possibile dare un completo soddisfacimento alle attese manifestate dagli stakeholders?”. Fornire una risposta a tali domande significa non accontentarsi di applicare modelli o soluzioni già esistenti, quanto piuttosto addentrarsi nel territorio dell’innovazione, della creatività e dell’intraprendenza personale. Per tale ragione la risposta a tali domande non è rinvenibile nella sfera di quanto viene studiato da un punto di vista teorico, quanto piuttosto nelle sperimentazioni e nel vissuto quotidiano di chi governa un’impresa. Innovative e inaspettate risposte possono nascere dalla tensione personale e dalla non perfetta razionalità dell’uomo che, in nome di una fiducia nel prossimo, modifica il modo di gestire la propria azienda, affronta le relazioni con gli stakeholders andando oltre il semplice contratto e cerca di abbracciare tutto quello che una persona può esprimere grazie alla propria personalità. Come è facile intuire è una prospettiva sicuramente di non facile applicazione nelle aziende, oggi caratterizzate da strutture organizzative e decisionali non adeguate, ma certamente è una visione capace di offrire nuove potenziali significative soddisfazioni e di alimentare la speranza per uno futuro sviluppo economico integrale. Riprendendo le parole di Benedetto XVI, si tratta di un “impegno inedito e creativo, certamente molto vasto e complesso. Si tratta di dilatare la ragione e di renderla capace di conoscere e di orientare queste imponenti nuove dinamiche, animandole nella prospettiva di quella ‘civiltà dell’amore’ il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura” (Caritas in veritate, 33).

È rassicurante osservare come la creatività umana abbia già trovato spazio nella pratica imprenditoriale, dove sempre più si osservano aziende impegnate nel non semplice tentativo di superare la contrapposizione tra le attese di massimizzazione del profitto degli shareholders e la ricerca di un bene comune (identificato spesso con il termine “impatto sociale”). Nuove organizzazioni sono strutturare per permettere la coesistenza simultanea di due missioni (una sociale e una economica) e, per tale ragione, sono identificate negli studi come “organizzazioni ibride”. Queste imprese rappresentano un punto di novità significativa nel panorama economico aziendale, tanto da essere meritevoli di specifiche e intense attività di ricerca, che permettano di comprendere i meccanismi con cui esse cercano di superare la conflittualità tra interessi e, tramite la valorizzazione della loro esperienza, alimentare nel tempo virtuosi tentativi di imitazione da parte di altre imprese.


Bibliografia
Freeman R. E. (1984), Stakeholder management: a strategic approach, Pitman.
Freeman R. E., Wicks A. C., Parmar B. (2004), Stakeholder theory and “the corporate objective revisited”, “Organization Science”, vol. 15, no. 3, May-June 2004, pag. 364-369.
Friedman M. (1962) Capitalism and freedom, University of Chicago Press.
Friedman M. (1970), The social responsibility of business is to increase its profits, in L.B. Pincus (Ed.), Perspectives in business ethics, McGraw-Hill, pp. 246-251.
Porter M. E., Kramer M. R. (2011), Creating Shared Value, “Harvard Business Review”, January-february 2011.


Autore
Matteo Pedrini, Università Cattolica del Sacro Cuore (matteo.pedrini@unicatt.it)