HA SCOPERTO STELLE DAL FIATO CORTO

La Medaglia Zeldovich a Vito Sguera

Per la prima volta è un italiano, Vito Sguera dell’INAF, ad aggiudicarsi la Zeldovich Medal per l’astrofisica, un ambito riconoscimento internazionale per ricercatori under-35. Fondamentale il suo contributo alla scoperta di una nuova classe di sorgenti, i “Supergiant fast X-ray transients”.

     05/05/2010
[flv:https://www.media.inaf.it/video/flv/sguera-zeldovich.flv 400 300]

Un guizzo e via. Sono i centometristi della galassia. Si attivano e disattivano in modo così repentino da essere sfuggiti allo sguardo degli astronomi per anni. Ma non a quello vispo e tenace di Vito Sguera, ricercatore all’INAF-IASF Bologna. Spulciando uno a uno i fotogrammi ripresi dallo strumento IBIS a bordo del satellite dell’ESA Integral, Sguera alla fine è riuscito a inchiodarli con le mani nel sacco: sono i supergiant fast X-ray transients (SFXT). Ovvero, sistemi binari della nostra galassia che, a differenza dei loro parenti più comuni, non emettono raggi X in modo persistente, ma solo ogni tanto, e per tempi brevissimi.

Per il suo contributo fondamentale alla scoperta di questa nuova classe di sorgenti, l’Accademia Russa delle Scienze e il Comitato internazionale per la ricerca spaziale (COSPAR) hanno deciso di assegnare proprio a Sguera la Zeldovich Medal, un premio internazionale istituito in memoria del fisico sovietico Yakov Borisovich Zeldovich, scomparso nel 1987, e conferito ogni due anni a ricercatori under-35 che si siano distinti nel loro campo di ricerca. La cerimonia di premiazione si terrà a Brema (Germania) il prossimo 19 luglio, durante l’assemblea internazionale del COSPAR. E per la prima volta da quando il premio è stato istituito, a ricevere l’ambita medaglia, per la sezione astrofisica, sarà un ricercatore italiano.

Vito Sguera, 35 anni, originario di Barletta, si trovava in Inghilterra per il PhD, a Southampton, quando ha avuto l’intuizione vincente che gli ha permesso d’identificare gli SFXT. «Nel campo delle alte energie, di solito i dati si integrano», spiega Sguera, «perché più il tempo di osservazione è lungo e più segnale si riesce ad accumulare. Io ho seguito il percorso opposto: invece di sommare le osservazioni, le ho spezzettate in intervalli via via sempre più piccoli. È così che sono riuscito a isolare il comportamento anomalo di queste sorgenti. Un po’ come avviene in fotografia: i tempi d’esposizione lunghi sono perfetti per ritrarre un gufo nella notte, immobile sul ramo d’un albero. Ma se vuoi immortalare l’istante in cui aggredisce la preda, devi passare a tempi molto più brevi».

Quanto al nome, “Supergiant fast X-ray transients”, come spesso accade in astrofisica astruso e difficile da ricordare, Sguera si schernisce così: «Be’, con il team con il quale li ho scoperti, così per gioco, avevamo pure pensato di chiamarli VITO, dall’acronimo very interesting transient objects… ma decisamente non era il caso!».