Long COVID: aspetti nosografici ed epidemiologia clinica

Maurizio G. Abrignani1, Alessandro Maloberti2, Pier Luigi Temporelli3, Giulio Binaghi4, Arturo Cesaro5,6, Francesco Ciccirillo7, Fabrizio Oliva8, Domenico Gabrielli9, Carmine Riccio10, Michele Massimo Gulizia11,12, Furio Colivicchi13, a nome dell’Area Cronicità Cardiologica ANMCO

1U.O. Cardiologia, P.O. S. Antonio Abate, Asp Trapani

2Cardiologia 4, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano

3Divisione Cardiologia Riabilitativa, ICS Maugeri, IRCCS Gattico-Veruno (NO)

4S.C. Cardiologia, ARNAS G. Brotzu, Cagliari

5Università della Campania “L. Vanvitelli”, Napoli

6Divisione Cardiologia, AORN Sant’Anna e San Sebastiano, Caserta

7U.O.C. Cardiologia, P.O. V. Fazzi, Lecce

8Cardiologia 2-Insufficienza Cardiaca e Trapianti, Dipartimento Cardiotoracovascolare “A. De Gasperis”, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano

9U.O.C. Cardiologia-UTIC, Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, Roma

10U.O.S.D. Follow-Up del Paziente Post-Acuto, Dipartimento Cardio-Vascolare, AORN Sant’Anna e San Sebastiano, Caserta

11U.O.C. Cardiologia, Ospedale Garibaldi-Nesima, ARNAS “Garibaldi”, Catania

12Fondazione per il Tuo cuore-Heart Care Foundation, Firenze

13U.O.C. Cardiologia Clinica e Riabilitativa, P.O. San Filippo Neri, ASL Roma 1, Roma

Recent evidence shows that a range of persistent or new symptoms can manifest after 4-12 weeks in a subset of patients who have recovered from acute SARS-CoV-2 infection, and this condition has been coined long COVID by COVID-19 survivors among social support groups. Long COVID can affect the whole spectrum of people with COVID-19, from those with very mild acute disease to the most severe forms. Like the acute form, long COVID has multisystemic aspects. Patients can manifest with a very heterogeneous multitude of symptoms, including fatigue, post-exertional malaise, dyspnea, cognitive impairment, sleep disturbances, anxiety and depression, muscle pain, brain fog, anosmia/dysgeusia, headache, and limitation of functional capacity, which impact their quality of life. Because of the extreme clinical heterogeneity, and also due to the lack of a shared, specific definition, it is very difficult to know the real prevalence and incidence of this condition. Risk factors for developing long COVID would be female sex, initial severity, and comorbidities. Globally, with the re-emergence of new waves, the population of people infected with SARS-CoV-2 continues to expand rapidly, necessitating a more thorough understanding of potential sequelae of COVID-19. This review summarizes up to date definitions and epidemiological aspects of long COVID.

Key words. COVID-19; Epidemiology; Long COVID; Nosography; Post-acute sequelae of SARS-CoV-2 infection.

La pandemia da sindrome respiratoria acuta severa coronavirus 2 (SARS-CoV-2) e la malattia ad esso associata (COVID-19) sono state, senza dubbio, una delle più grandi tragedie degli ultimi decenni per la salute, l’assistenza sanitaria e l’economia, con oltre 6 milioni di decessi. In tutto il mondo i sopravvissuti al COVID-19 ora superano il mezzo miliardo di persone1. Dal 2020, un numero sempre maggiore di casi clinici, casistiche e studi osservazionali hanno riportato la presenza a lungo termine, dopo infezione da SARS-CoV-2, di un variegato corteo sintomatologico per cui non esiste ancora una definizione universalmente accettata, il cui impatto a lungo termine sulla salute cardiovascolare e sulla mortalità sta emergendo come una delle principali criticità a livello globale. Un fenomeno simile, denominato parkinsonismo post-encefalitico, sembra aver seguito la pandemia influenzale di Spagnola del 1918/19. In questa rassegna discuteremo le definizioni e l’epidemiologia del long COVID (LC), con particolare riferimento all’apparato cardiovascolare.

NOSOGRAFIA

Il termine “long-COVID” sarà quello che utilizzeremo in omaggio alle tante vittime della pandemia, in quanto è stato originariamente coniato proprio da un paziente2 nella primavera 2020 e poi si è diffuso sui social ancor prima di essere accettato dalla comunità scientifica, per cui è stato denominato “la prima malattia creata attraverso i contatti dei pazienti su Twitter”3.

Dal settembre 2020 questa condizione è elencata nella International Classification of Diseases, versione 10 (ICD-10) come condizione post-COVID-194.

Nel Regno Unito, nel dicembre 2020, le linee guida del National Institute for Health and Care Excellence5 hanno definito il LC come persistenza della sintomatologia, non spiegata da una diagnosi alternativa, oltre le 4 settimane di infezione da SARS-CoV-2 e per almeno 1 settimana. Sono stati quindi inclusi nel Systematized Nomenclature of Medicine Clinical Terms i seguenti termini: COVID-19 acuto (segni e sintomi <4 settimane); fase sintomatica continua (4-12 settimane dall’esordio) e sindrome post-COVID-19 (>12 settimane dall’esordio). L’Office for National Statistics6 richiede inoltre la presenza di limitazioni funzionali.

Negli Stati Uniti, il Center for Disease Control and Prevention7 ha definito le “condizioni post-COVID” come una vasta gamma di sintomi, presenti 4 o più settimane dopo la prima infezione, che includono il LC (sintomi che durano settimane o mesi) e la sindrome persistente post-COVID.

Successivamente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha coinvolto un panel internazionale di 265 pazienti, clinici e ricercatori in un processo Delphi, allo scopo di sviluppare una definizione condivisa per la condizione post-COVID-194,8: persistenza dei sintomi di solito oltre i 3 mesi di infezione da SARS-CoV-2 probabile o confermata, della durata di almeno 2 mesi e non spiegata da diagnosi alternativa.

Nalbandian et al.9 hanno definito la “sindrome post-acuta da COVID-19” (presenza di sintomi subacuti o persistenti fino a 12 settimane dall’episodio iniziale) e la “sindrome cronica post-COVID” (sintomi presenti oltre le 12 settimane).

Altri termini usati per descrivere il LC includono sequele post-acute da COVID-19 (post-acute sequelae of SARS-CoV-2 infection, PASC)10,11, COVID a lungo tragitto (long haul)12 e “COVID-19 cronico” (quando la sintomatologia supera le 12 settimane)13. Mahmud et al.14 hanno definito il LC come la persistenza dei sintomi oltre le 2 settimane (cioè il tempo impiegato per la clearance virale).

Tra tutti questi, uno dei termini attualmente più impiegati è PASC, condizione definita da una gamma di sintomi che emergono o persistono dopo il recupero da COVID-19, di solito della durata di 4-12 settimane e oltre10,11. Di recente, l’ACC Expert Consensus Decision Pathway on Cardiovascular Sequelae of COVID-19 in Adults ha proposto di dividere i pazienti con PASC in due gruppi: quelli con malattie cardiovascolari oggettivamente distinguibili (PASC-malattia cardiovascolare, PASC-CVD) e quelli con risultati dei test normali o incapaci di spiegare completamente i sintomi riportati (PASC-sindrome cardiovascolare, PASC-CVS)11. La PASC-CVD include, in particolare, miocardite e altre forme di coinvolgimento miocardico, pericardite, ischemia miocardica nuova o in peggioramento a causa di malattia coronarica ostruttiva, disfunzione microvascolare, cardiomiopatia non ischemica con coinvolgimento dei ventricoli sinistro e/o destro, tromboembolia venosa e arteriosa, sequele cardiovascolari della malattia polmonare (es. fibrosi polmonare, ipertensione polmonare), ictus cerebri e aritmie (es. fibrillazione atriale, battiti ventricolari prematuri, tachicardia ventricolare)15-25.

L’eterogeneità delle definizioni risente della natura variegata del LC, che riflette quanto osservato in acuto10. In primo luogo, vi possono essere diversità dal punto di vista temporale nell’epoca di insorgenza e nella durata dei sintomi (4-12 settimane, 12-settimane-1 anno, >1 anno)9,10,17,26-31. Il limite delle 4 settimane, presente in molte definizioni, deriva dal fatto che nella maggior parte dei casi la replicazione del SARS-CoV-2 cessa dopo 4 settimane dall’infezione iniziale27. Vi sono tuttavia varie segnalazioni in letteratura circa la durata della persistenza virale, la più lunga di 110 giorni28; è incerto se queste forme possano ricadere nel LC. Anche alla risoluzione dell’infezione, peraltro, l’organismo può ancora ospitare RNA virale in vari tessuti29. Fernández-de-las-Peñas et al.32 hanno definito 4 stadi in relazione al periodo di comparsa dei sintomi: 1) sintomi potenzialmente correlati all’infezione (fino a 4-5 settimane dall’esordio); 2) sintomi acuti post-COVID (da 5 a 12 settimane dall’esordio); 3) sintomi protratti post-COVID (da 12 a 24 settimane); 4) sintomi persistenti post-COVID (che durano più di 24 settimane). Studi a lungo termine indicano una progressiva riduzione del numero dei sintomi post-COVID nei 2 anni successivi all’infezione33-36. Tuttavia, in oltre il 91% dei casi il tempo di guarigione supera le 35 settimane37 e, nella coorte francese ComPaRe LC, tra i sintomatici a 2 mesi l’85% riportava ancora sintomi a 1 anno38.

I sintomi possono poi essere fluttuanti nel tempo30, cioè possono essere persistenti o apparire dopo un periodo asintomatico (symptom lag) settimane o mesi dopo l’infezione iniziale23,31. Un secondo modello proposto da Fernández-de-las-Peñas et al.33 è basato proprio sulla natura intermittente dei sintomi post-COVID, definiti come esacerbati (quando un paziente ne soffriva già prima dell’infezione), ad esordio ritardato (nuovi sintomi non sperimentati durante la fase acuta che compaiono dopo un periodo di latenza) o persistenti (sperimentati in fase acuta e che persistono senza interruzione).

Vi possono poi essere sintomi persistenti e debilitanti sia nei pazienti con malattia grave sia in pazienti con sintomi lievi o addirittura asintomatici in fase acuta, fino ad un terzo dei casi7,21. I dettagli relativi alla malattia acuta di un paziente possono comunque aiutare a collocare i sintomi persistenti nel giusto contesto e identificare diagnosi alternative. Ad esempio, quelli con lesioni polmonari estese, necessità di ventilazione meccanica e/o gravi complicanze cardiovascolari possono sperimentare sequele prolungate legate all’insulto iniziale. Persistenza e/o marcato peggioramento dei sintomi durante il primo periodo post-acuto possono suggerire anche uno stato iperinfiammatorio (sindrome infiammatoria multisistemica)39. Un team di ricercatori del National Institute for Health Research ha suggerito che il LC possa non essere una singola condizione ma possa essere suddiviso in sindrome post-terapia intensiva, sindrome da astenia post-virale e sindrome da COVID a lungo termine40. Yong e Liu41 hanno proposto l’esistenza di ben sei sottotipi; sequele multiorgano non severe, sequele fibrotiche polmonari, encefalomielite mialgica o sindrome da fatica cronica (myalgic encephalomyelitis/chronic fatigue syndrome, ME/CFS), sindrome da tachicardia ortostatica posturale (postural orthostatic tachycardia syndrome, POTS), sindrome post-terapia intensiva (post-intensive care syndrome, PICS) e sequele mediche o cliniche. La PICS include problemi di salute fisica, cognitiva e mentale, specie estrema debolezza e disturbo da stress post-traumatico (post-traumatic stress disorder, PTSD) che possono essere correlati a malattie critiche diverse da infezione da SARS-CoV-227. Nello studio ANCOHVID (Andalusian Cohort of Hospitalised patients for COVID-19), condotto su 453 pazienti ospedalizzati per COVID-19 e 453 per altri motivi, l’incidenza di sintomi a 1 anno dalla dimissione è stata sovrapponibile nei due gruppi (36.1% vs 35.3%)42; nei pazienti COVID, tuttavia, si è osservata una incidenza maggiore di disturbi faringei, confusione mentale o turbe mnesiche ed ansia. Dispnea, astenia, dolore toracico, cefalea, disturbi addominali e cognitivi, mialgia, ansia e depressione sono inoltre più frequenti rispetto ai pazienti dopo influenza43.

Nelle definizioni di questa sindrome è indispensabile la presenza di sintomatologia, ma questa non viene ben specificata ed è variabile in modo significativo, cosa che riflette anche quanto osservato in acuto. I gruppi di difesa dei pazienti9 (ad es. long COVID SOS, COVID Advocacy Exchange, the National Patient Advocate Foundation COVID Care Resource Center, long-haul COVID fighters, Body Politic, Long COVID Support Group) hanno migliorato le nostre conoscenze sulla natura multiforme, sfaccettata di questa malattia, caratterizzata da una vasta costellazione di sintomi, che abbracciano più organi o sistemi, specie quelli cardiovascolare, respiratorio, renale e neuropsichico7,16-20,23,27,37,43-52 che ne fanno una condizione multisistemica, come illustrato nella Figura 1.




 In revisioni sistematiche su studi di vario tipo, tra cui survey online distribuite attraverso gruppi di supporto e social media (Twitter, Facebook, Reddit), sono stati identificati fino a 203 sintomi, con una notevole eterogeneità nella loro prevalenza37,43.

Uno dei sintomi più comuni nelle varie fasi è l’astenia, intensa sensazione di esaurimento, perdita di energie, debolezza e intolleranza all’esercizio, ma non necessariamente indotta da uno stress fisico e mentale e che non migliora con il riposo, descritta dal 9.7% all’82.9% dei casi4,7,15,16,21,22,27,32,33,37,53-79. L’astenia è comune dopo altre malattie virali, come la mononucleosi63. È stata riportata una riduzione a 3 mesi rispetto al periodo pre-infezione (60 [15–120] min vs 120 [60–240] min/settimana; p<0.05) del tempo di cammino, aumentato a 6 mesi (90 [30–150] min; p<0.05), sia pure restando inferiore al basale80. Il LC è stato proposto come una forma di ME/CFS81,82. Ci sono marcate somiglianze tra le due sindromi, che hanno legami con alterazioni psicologiche, immunitarie e neurostrutturali/metaboliche, ma anche sottili ma importanti differenze. La ME/CFS è definita da una triade di sintomi: 1) compromissione sostanziale della capacità di sforzo fisico o mentale anche minore a casa o al lavoro, di durata superiore ai 6 mesi, accompagnata da profonda stanchezza, ad esordio nuovo o definito (ma non permanente), non sensibilmente alleviata dal riposo; 2) malessere post-esercizio (post-exertional malaise, PEM); e 3) sonno non ristoratore; i pazienti devono anche avere intolleranza ortostatica o deterioramento cognitivo82. I sintomi dovrebbero durare un minimo di 6 mesi e verificarsi almeno il 50% delle volte in cui si effettua uno sforzo. Usando i questionari Functional Assessment of Chronic Illness Therapy–Fatigue Scale e DePaul Symptom Questionnaire–Post-Exertional Malaise, un’esacerbazione dei sintomi dopo sforzo era frequente e il 58.7% raggiungeva i punteggi di PEM osservati nella ME/CFS83. Le attuali definizioni di LC non richiedono tuttavia la presenza di PEM. La prevalenza di ME/CFS dopo ricovero per COVID-19, valutata con un questionario, è risultata simile alla popolazione generale84.

Altri sintomi comuni includono disturbi neurologici (nebbia cerebrale, disfunzione cognitiva, di memoria, attenzione e concentrazione (9.1-55.2%)16,58,60,65,68,70,78,85, cefalea (12.8-44%)16,61,66,72, disturbi del sonno (12-60.3%)57,70,77,85-87, dis­funzioni di gusto e odorato (12.4-74%)37,57,59,62,65,68,73,77,86-88, disturbi gastrointestinali (nausea, vomito, diarrea) (18-32.8%)54,61, sintomi psichiatrici (ansia, depressione, PTSD) (12.2-42.8%)37,56,66,78,85,86, alopecia (18.4%)87, mialgie e dolori articolari (8-55%)53,57,59,66,71,78,85,86,89, eruzioni cutanee, febbricola e disfunzione erettile. La maggior parte dei pazienti (81.9%) riportano più di tre sintomi62.

Alcuni dei sintomi comportamentali del LC (astenia, apatia, disturbi dell’umore) possono essere indistinguibili dai sintomi psicologici di depressione e ansia che possono riflettere una risposta di adattamento ai traumi e alle ristrettezze sociali del periodo pandemico. Molti sintomi sono aspecifici, ed alcuni, come l’incapacità a sbadigliare o labbra screpolate, sono biologicamente poco plausibili31. Nella coorte francese CONSTANCES, su 26 823 partecipanti, a 6 mesi una positività sierologica era associata solo con anosmia persistente (odds ratio [OR] 2.59; intervallo di confidenza [IC] 95% 1.57-4.28), mentre diversi sintomi, con un OR compreso tra 1.12 e 16.61, venivano riportati in coloro che credevano di avere contratto il COVID senza riscontro di laboratorio90. In una coorte di 3334 operatori sanitari, quelli con tampone positivo avevano più frequentemente almeno un sintomo rispetto ai controlli (73% vs 52%, p<0.001); tuttavia la notevole percentuale di sintomi nei non positivi fa pensare anche a fenomeni di “burnout”91.

I sintomi cardiopolmonari, tra cui dolore toracico (5-62%)18,37,64,72,89, dispnea, con o senza intolleranza all’esercizio fisico e incapacità di prendere un respiro completo (12.8-86%)15,21,22,32,33,37,54,55,58-60,62,64,65,70,71,73,74,78,85-87,89,92, tosse (2-59%)15,69,71,79,88,89, palpitazioni e cardiopalmo (9-68%)18,21,22,37,64, sincopi (13%)37 e vertigini sono comuni4,17,27,47,48.

Molti dei pazienti con LC manifestano una dissociazione tra sintomi, anche cardiovascolari, e rilevazioni oggettivabili utilizzando test diagnostici standard35,93-96, fatto che evidenzia i limiti delle indagini cliniche di routine97 e può essere fonte di frustrazione sia per i pazienti che per i medici. In un ampio studio osservazionale su 3597 atleti, patologie cardiovascolari sono state riscontrate solo in una minoranza di quelli con dolore toracico da sforzo o mancanza di respiro e in nessuno con intolleranza all’esercizio98. Allo stesso modo, su 126 pazienti consecutivi valutati in una clinica cardiologica per i sintomi cardiovascolari, solo il 23% è risultato avere una patologia corrispondente95.

Alcuni sintomi hanno prevalenza ridotta col tempo (disgeusia, anosmia), altri stabile (dispnea) e altri in aumento (alopecia ed altri sintomi dermatologici, disordini nel sonno, parestesie, disturbi cognitivi e palpitazioni)38,67. Una revisione sistematica ha comparato i sintomi da 4 a 12 settimane con quelli oltre 12 settimane. L’astenia rappresenta il sintomo più frequente (rispettivamente 43% e 44%), seguita da disordini del sonno (36%; 33%), dispnea (31%; 40%) e tosse (26%; 22%); ansia (28%; 34%) e depressione (25%; 32%) sono comuni nelle fasi tardive99.

I sintomi del LC generalmente impattano sulla vita quotidiana, influenzando le capacità di tornare al lavoro o partecipare alle attività sociali4,10,18,21,22,30,37,46,49,51,53,68,75,99-101. In uno studio multicentrico su pazienti ambulatoriali con COVID-19, contattati da 6 a 11 mesi dopo la loro positività, il numero di sintomi era associato a un minore stato di salute complessivo (EuroQol visual analogue scale [EQ-VAS]: OR 0.63; IC 95% 0.57-0.69), minore qualità di vita (EQ-5D-5L: OR 0.65; IC 95% 0.59-0.72) e maggiore stress psicologico (Patient Health Questionnaire-4: OR 1.40; IC 95% 1.28-1.54)85. In una revisione sistematica su 4828 pazienti86, una scarsa qualità di vita (EQ-VAS) era presente nel 59% dei casi (IC 95% 42–75%), il 45.2% accusava ridotta capacità lavorativa e il 22.3% non lavorava più. In uno studio su pazienti con COVID-19 lieve o moderato usando la Rehabilitation-Needs-Survey, che include la Short Form 36 Health Survey, limitazioni all’attività fisica di vario genere sono state riportate nel 49% dei casi102. In una survey online su 2550 pazienti, il 32% riportava di essere incapace a vivere autonomamente, il 16.9% a lavorare, il 64% a svolgere attività prima usuali e il 27% lamentava una riduzione del reddito47. In un’altra survey, il 29.1% ha lamentato ripercussioni lavorative e il 43.3% discriminazione sociale88. In un registro svedese su 11 955 pazienti, dopo 4 mesi il 13.3% era a riposo per malattia103. In una survey104, il 36.2% dei pazienti ha riportato limitazioni nel trasportare pesi, il 35.5% nel salire un piano di scale e il 22.1% nel camminare, mentre il 41.5% ha riportato una salute peggiore rispetto all’anno precedente, ma ciò viene lamentato anche da soggetti SARS-CoV-2 negativi105. Un caso particolare riguarda gli operatori sanitari, un terzo dei quali lamenta sintomi da LC, ma sembra riluttante ad assentarsi dal lavoro106.

Al di là dei sintomi, vi possono essere segni oggettivi55, come ipertensione arteriosa o ridotta saturazione di ossigeno93,107. È stata osservata in circa un terzo dei pazienti81,93,97,107-114 una notevole somiglianza tra la sintomatologia del LC e la POTS, ben nota forma disautonomica con intolleranza ortostatica. I pazienti con POTS hanno generalmente una frequenza cardiaca >30 b/min al di sopra della frequenza cardiaca supina dopo 5-10 min di quiete in piedi (e spesso >120 b/min) in assenza di ipotensione ortostatica. In una clinica specializzata in disautonomia, nel 75% dei pazienti è stata osservata instabilità ortostatica al tilt test; la POTS è stata la diagnosi più comune, seguita da sincope neurocardiogena (15%) e ipotensione ortostatica (10%)115. Altre forme di tachicardia (es. tachicardia sinusale inappropriata) possono essere comunemente riscontrate116 fino al 15.2% dei pazienti in dimissione e sono più frequenti tanto più è stato severo il quadro settico117. Altri sintomi posturali sono comuni, tra cui palpitazioni, vertigini, debolezza, affaticamento, visione sfocata118.

LE DIMENSIONI DEL PROBLEMA

La variabilità dell’espressione del LC e l’assenza di una definizione globalmente standardizzata (differenze negli intervalli di follow-up e mancanza di consenso sul numero di sintomi richiesti) rende difficile la caratterizzazione della sua prevalenza8. È da sottolineare che, in aggiunta ai classici studi basati su modelli epidemiologici, sono state condotte survey online e su utenti di app, come la COVID-19 symptom tracker app, sviluppata dal King’s College di Londra37,47,119-121. In un sondaggio online condotto da un gruppo auto-organizzato di 3700 cittadini47 provenienti da 56 nazioni, la maggior parte dei quali donne bianche di età compresa tra 30 e 60 anni e di cui solo l’8% era stato ricoverato in ospedale per COVID-19, più del 90% ha riportato sintomi persistenti oltre le 35 settimane. È importante sottolineare che questi studi hanno importanti limitazioni, tra cui vari bias di progettazione e mancanza di gruppi di controllo. In un’altra survey online, condotta nelle regioni del Tirolo austriaco ed italiano, quasi metà dei partecipanti hanno riportato persistenza dei sintomi oltre 28 giorni120. In un gruppo di supporto online la proporzione di pazienti senza sintomi si riduce da 3 a 6 mesi solo dal 98.7% al 94.6%121.

Viceversa, in un registro sanitario nella Danimarca settentrionale dal febbraio 2020 al giugno 2021, solo l’1.4% di tutti i pazienti positivi al SARS-CoV-2 hanno avuto assegnato un codice diagnostico ICD-10 di LC122. Lo stesso fenomeno è stato osservato nel Regno Unito123.

La prevalenza segnalata di LC varia di molto tra le diverse nazioni e al loro interno (Figura 2)10,13,14,18,21-23,32-34,36,43-45,54,57-59,61,62,64-67,70-75,77,79,88,92,100,101,119,124-142. Anche revisioni sistematiche e metanalisi riportano una variabilità di prevalenza del LC dal 30% all’80% circa16,23,143.




Le differenti caratteristiche cliniche delle popolazioni studiate possono spiegare la grande disparità nelle stime di prevalenza. Gli studi che valutano i pazienti ospedalizzati in genere riportano prevalenze più elevate18,21,22,64 rispetto a quelli di comunità119, cosa che riflette la complessa relazione tra gravità della malattia acuta, maggiore carico di comorbilità e sintomi persistenti.

Anche i tempi di valutazione sembrano essere importanti, in quanto la frequenza dei sintomi può diminuire via via che passa il tempo dall’infezione acuta.

Le diverse definizioni di LC possono anche influenzare le prevalenze, maggiori quando i criteri sono molto estesi14 e minori nel caso di definizioni più conservative24.

È anche probabile che il disegno dello studio sia rilevante, in quanto l’esame retrospettivo delle cartelle cliniche elettroniche e dei database può avere dei bias10,65,144, mentre gli studi prospettici anche innovativi (es. telemedicina, app per i sintomi) e interviste in presenza, pur garantendo valutazioni più complete37,74,95 sono suscettibili di attrarre pazienti con un elevato carico di sintomi in cerca di una spiegazione. Oltre a questi elementi, anche le disparità nelle vaccinazioni, nelle varianti di SARS-CoV-2, nelle comorbilità, nelle dimensioni del campione di studio e nell’uso di vari gruppi di controllo sembrano determinare l’eterogeneità nelle stime di prevalenza, come illustrato nella Tabella 1.




EPIDEMIOLOGIA CLINICA DEL PASC-CVD

Ampi studi di coorte retrospettivi hanno evidenziato numerosi casi di nuovi eventi cardiovascolari dopo infezione da SARS-CoV-2. In uno studio su pazienti non ospedalizzati del Department of Veterans Affairs degli Stati Uniti, Al-Aly et al.10 hanno dimostrato un alto rischio di morte, eventi cardiovascolari e malattie metaboliche oltre i 30 giorni dall’infezione. Dallo stesso database, a 1 anno dal COVID-19, anche nei non ospedalizzati, aumenta il rischio di malattie cerebrovascolari, aritmie, cardiopatia ischemica e non ischemica, pericarditi, miocarditi, scompenso cardiaco ed eventi tromboembolici145. Uno studio nel Regno Unito su 47 780 pazienti ospedalizzati, di cui quasi un terzo riammessi in ospedale, ha dimostrato che una diagnosi di COVID-19 era collegata ad un aumento del triplo del rischio di eventi cardiovascolari maggiori fino a 4 mesi dalla diagnosi (rispetto ai controlli non ospedalizzati) (p<0.001)144. Daugherty et al.146 hanno confrontato l’incidenza di nuove diagnosi cardiometaboliche nei pazienti post-COVID-19 con controlli non COVID-19 e pazienti con infezioni del tratto respiratorio inferiore; il COVID-19 era associato a un rischio quasi doppio di diagnosi di nuovi eventi cardiovascolari rispetto ai controlli, ma non significativo rispetto agli altri pazienti con infezioni respiratorie. Risultati sostanzialmente sovrapponibili sono stati riportati nel Regno Unito da Bhaskaran et al.147, su 164 000 ospedalizzati per COVID-19 comparati a ospedalizzati con influenza e controlli. Dallo stesso registro OpenSAFELY, Tazare et al.148 hanno rilevato che l’eccesso di rischio di eventi cardiovascolari maggiori tra i pazienti COVID-19 precedentemente ospedalizzati era simile ai pazienti ammessi con una diagnosi di polmonite, sebbene il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 fosse più alto.

Diversi studi osservazionali prospettici50,95-97,149-170 hanno parimenti riportato danni cardiaci persistenti nel periodo post-acuto, pur evidenziando la vasta eterogeneità nella prevalenza delle anomalie.

Numerosi studi hanno valutato il ruolo dell’ECG nello screening dei pazienti35,158,162. Anomalie di ripolarizzazione o depolarizzazione e aritmie tendono a risolversi nella maggior parte dei pazienti ospedalizzati entro 6 mesi35,93,158. Tuttavia, l’aritmia sinusale è frequente nella fase post-acuta e si manifesta come periodi transitori o prolungati di tachicardia o bradicardia sinusale95,152. Il 13.7% dei pazienti che indossavano un Fitbit mostrava una frequenza cardiaca persistentemente elevata (>5 battiti al di sopra della frequenza cardiaca a riposo pre-COVID) fino a 133 giorni dopo l’infezione171.

L’ecocardiogramma può mostrare dilatazione del ventricolo destro, aumento delle pressioni polmonari e disfunzione sisto-diastolica biventricolare (la disfunzione destra, più frequente, è associata a precedente polmonite, mentre quella sinistra a un maggiore stato infiammatorio)120,132,150,157,165,168-170,172,173. In uno studio su pazienti guariti da COVID-19 (il 41% dei quali presentava sintomi persistenti) 60 e 100 giorni dopo l’infezione, una disfunzione diastolica è stata rilevata rispettivamente nel 60% e 55%168. Nei pazienti con dispnea, pur con una frazione di eieizione ventricolare sinistra non significativamente differente, è presente un minore strain longitudinale globale del ventricolo sinistro (-19.9 ± 2.1 vs -21.3 ± 2.3, p=0.039), suggerendo una disfunzione ventricolare subclinica174.

La risonanza magnetica cardiaca (RMC) ha dimostrato una frequenza relativamente elevata di miocarditi post-virali o infiammatorie in pazienti con pregresso COVID-19160,175. Molti pazienti senza storia di malattia cardiovascolare ma con incremento di troponina al ricovero esibivano alla RMC segni di edema extracellulare persistente al cuore e ai muscoli scheletrici a 3 mesi, che regredivano a 1 anno176. In uno studio su militari convalescenti da COVID sottoposti a RMC per sintomi cardiopolmonari, confrontati con altri che la avevano eseguita prima del COVID, la frazione di eiezione del ventricolo destro era ridotta (51.0% vs 53.2%, p=0.012) e una miocardite è stata diagnosticata nell’8% dei casi154. Puntmann et al.160 hanno riportato un coinvolgimento cardiaco nel 78% e una infiammazione nel 60% a 71 giorni dall’infezione; la captazione tardiva di gadolinio non ischemica è stata riscontrata nel 20% e prolungati tempi di rilassamento nativi T1 e T2 rispettivamente nel 73% e 60%. Risultati simili sono stati osservati in altri studi50,150,155. In contrasto, uno studio successivo166 sugli operatori sanitari ha riportato una minore prevalenza di anomalie tissutali, senza differenze significative a 6 mesi tra sieropositivi e sieronegativi. Anche in un altro studio su pazienti ospedalizzati177 i difetti di perfusione miocardica inducibili erano comuni tra i pazienti con malattia da moderata a grave, ma non differivano rispetto ai controlli. In un’analisi di un quinto della popolazione statunitense, l’incidenza di miocardite da 3 mesi a 1 anno è risultata 45/100 000178. Numerosi studi (la maggior parte entro 1-2 mesi dall’infezione) hanno valutato il carico di miocardite tra gli atleti, in considerazione dei rischi di morte cardiaca improvvisa152,163,164,167; la prevalenza della miocardite è risultata generalmente bassa (0.6-3%). Allo stesso modo, uno studio su 1285 partecipanti alla UK Biobank78 non ha rivelato alcun legame tra infezione precedente e fenotipi cardiaci dopo aggiustamento per potenziali fattori confondenti. La variabilità nei risultati probabilmente riflette le differenze tra le popolazioni studiate, i tempi relativi all’insorgenza dell’infezione e gli specifici protocolli di imaging utilizzati11. In una recente metanalisi, comunque, quasi la metà dei pazienti con pregresso COVID-19 esibiva una o più anomalie alla RMC138. Le pericarditi sono rare, ma piccoli versamenti sono relativamente comuni. La RMC consente anche di valutare la prevalenza del danno multiorgano96,150. In uno studio su pazienti COVID-19 post-ospedalizzati, Raman et al.97 hanno riportato con la risonanza magnetica anomalie tissutali che coinvolgono i polmoni (60%), il cuore (26%, con evidenza di malattia dei piccoli vasi nel 9.3% e infarto miocardico nell’1.9%), il fegato (10%), i reni (29%) e il cervello (11%).

I test da sforzo cardiopolmonare hanno fatto luce sui sugli effetti del COVID-19 su capacità di esercizio e funzione polmonare35,97,138,149,156,159. Diversi studi hanno dimostrato una riduzione del consumo di ossigeno di picco22,35,97,149,53,156.

Similmente a quanto avviene nell’acuto179,180, complicazioni tromboemboliche arteriose e venose sono state riportate anche nel periodo post-acuto181. L’angio-tomografia, in uno studio su 55 pazienti a 3 mesi dopo l’infezione, ha rilevato trombosi arteriosa prossimale (5.4%) e microangiopatia distale (65.5%) in una percentuale significativa di pazienti sintomatici182. Sono descritte anche vene femorali non comprimibili, suggestive di trombosi venosa profonda132.

Nello studio di follow-up nazionale del Regno Unito (PHOSP-COVID), i livelli di frammento N-terminale del propeptide natriuretico di tipo B erano anormali solo nel 7% dei pazienti a 5 mesi dopo il ricovero64.

Oltre agli effetti diretti del COVID-19 su cuore, vasi, polmoni e altri tessuti, l’infezione da SARS-CoV-2 e le sue sequele possono avere un impatto su altri vari fattori di rischio. Il profilo cardiometabolico sfavorevole condiviso di COVID-19 e malattie cardiache implica che il COVID-19 possa svolgere un ruolo nell’instabilizzazione delle malattie subcliniche (es. malattia coronarica e insufficienza cardiaca)10,144. Attualmente, non ci sono prove disponibili di potenziali influenze di questi fattori di rischio aggiuntivi transitori o permanenti sugli eventi cardiovascolari94 e non è noto se queste anomalie fossero preesistenti all’infezione150. Sono pertanto in corso diversi studi per lo sviluppo di un modello predittivo: Innovative Support for Patients with SARS-CoV-2 Infections Registry (INSPIRE) del CDC, COVID-HEART (NIHR 285147), PHOSP-COVID (NIHR 285439), MOIST (NCT04525404), MYOCOVID (NCT04375748), MIIC-MI (NCT04412369) e CARDOVID (NCT04455347)130,183. In uno dei primi ad essere pubblicati, il CISCO-19, i pazienti ospedalizzati, in confronto ai controlli, a 28-60 giorni dalla dimissione avevano un’evidenza di persistente compromissione cardiorenale ed attivazione dell’emostasi e nel 13% dei casi una miocardite era molto probabile184.

FATTORI DI RISCHIO

Esistono numerosi fattori che favoriscono in modo indipendente il manifestarsi del LC. Contrariamente alla variabilità osservata nella prevalenza della sindrome, i fattori di rischio tendono ad essere abbastanza coerenti:

• Sesso: le donne vanno più facilmente incontro a sintomi da LC (OR da 1.45 a 5.27)6,36,44,47,52-54,60,67,75,77,78,85,89, 92,104,114,119,127,128,133,135,138,172,185-189, in particolare dispnea, astenia, dolore toracico, palpitazioni, astenia, cefalea, manifestazioni dermatologiche, stress psichico, disturbi neurocognitivi e sintomi multisistemici senza evidente disfunzione organica predominante33,53,70,126,172. Viceversa, la dispnea è più frequente negli uomini53.

• Età: alcuni studi riportano che il LC si verifica più facilmente nell’età avanzata33,44,78,89,138, altri nell’età media60, altri ancora in quella giovanile36,47,53.

• Etnia: gli asiatici hanno una minore probabilità di LC32.

• Gravità in acuto: numero e gravità dei sintomi in fase acuta (soprattutto vomito, faringodinia, dispnea, diarrea e cefalea), durata della degenza, necessità di ospedalizzazione, ossigenoterapia, ammissione in terapia intensiva e ventilazione invasiva21,22,32,33,44,47,52,60,65,74-76,85,89,104,125,126,135,138,145,186 e anche evidenza di danno miocardico100 sono associati, con rare eccezioni31, all’insorgenza di sintomi, in particolare somatici respiratori190. Nel Northern Colorado SARS-CoV-2 Biorepository (NoCo-COBIO) il 93% dei pazienti ospedalizzati e il 23% di quelli non ospedalizzati ha sviluppato PASC191. In una revisione “a ombrello”, che include 23 rassegne e 102 studi, la prevalenza varia dal 7% nei non ospedalizzati al 37.6% negli ospedalizzati186.

• Condizioni cliniche di base: il LC è più frequente nei pazienti con peggior stato di salute iniziale6,33,36,47,75,114,119,145,187 e comorbilità54,89,133,186, in particolare depressione77,188, tabagismo36,78, neoplasie188, pregressa broncopatia cronica6,65,114,119,125,145,188,192, ipertensione arteriosa187,193, dislipidemie188, diabete mellito74,193,194, ipotiroidismo141, malattie autoimmuni195 e obesità33,64,74,119,186,188,192. In particolare, l’impatto dei lockdown, dello smart-working e delle limitazioni all’attività fisica in una popolazione già sempre più obesa con inappropriati apporti dietetici e modelli di attività fisica è degno di nota196. Thompson et al.114, in uno studio prospettico su 6907 pazienti, hanno riferito che essere in sovrappeso o obesi era associato a una probabilità maggiore del 25% di sviluppare LC. Allo stesso modo, Sudre et al.119 hanno osservato che i pazienti con sintomi prolungati avevano maggiori probabilità di essere obesi rispetto a quelli senza. Il rischio di ricovero a 8 mesi era del 25% e 39% superiore, rispettivamente, nei pazienti con obesità moderata o severa197.

• Laboratorio: Ridotti livelli totali di IgM e IgG 3, insieme ad età, storia di asma e 5 sintomi in fase acuta fanno parte del PASC score, usato per predire il rischio di LC198. Piastrinopenia e bassi livelli di latticodeidrogenasi sono invece deboli fattori di rischio33.

Fattori protettivi sono invece il livello di educazione193 ed essere operatore sanitario105.

CONCLUSIONE

Il LC sta emergendo come un importante problema di salute pubblica. Al momento della stesura di questo articolo, non è chiaro se le anomalie identificate si riferiscono a una precedente infezione da SARS-CoV-2, a un diverso processo patologico o a un risultato incidentale. Inoltre, attualmente si sa poco sull’incidenza delle PASC in quelli con infezione da vaccino e in quelli affetti da nuove varianti di SARS-CoV-2 (es. Delta, Omicron)199. Quello che è certo è che il carico delle anomalie multiorgano e della compromissione della salute porterà a un sostanziale aumento delle richieste di interventi sanitari in futuro. Tutto ciò sottolinea la necessità di condurre studi con rigorosa raccolta di dati e arruolamento per definire la storia naturale e le possibilità di prevenzione di questa nuova sindrome11.

RIASSUNTO

Recenti evidenze mostrano che una serie di sintomi, persistenti o nuovi, possono manifestarsi dopo 4-12 settimane in un sottogruppo di pazienti guariti dall’infezione acuta da SARS-CoV-2; questa condizione è stata chiamata long COVID, in gruppi di supporto sociale, da sopravvissuti al COVID-19. Il long COVID può colpire l’intero spettro dei pazienti con COVID-19, da quelli con malattia acuta molto lieve a quelli più gravi. Come la forma acuta, il long COVID ha aspetti multisistemici. I pazienti possono manifestare una moltitudine eterogenea di sintomi, tra cui affaticamento, malessere post-sforzo, dispnea, deterioramento cognitivo, disturbi del sonno, ansia e depressione, dolori muscolari, nebbia cerebrale, anosmia/disgeusia, cefalea e limitazione della capacità funzionale, che influiscono sulla loro qualità di vita. A causa dell’estrema eterogeneità clinica, e anche per mancanza di una definizione condivisa e specifica, è molto difficile conoscere la reale prevalenza e incidenza di questa condizione. I fattori di rischio per lo sviluppo di long COVID sarebbero il sesso femminile, la gravità iniziale e le comorbilità. A livello globale, con il riemergere di nuove ondate, la popolazione di persone infette da SARS-CoV-2 continua ad espandersi rapidamente, richiedendo una comprensione più approfondita delle potenziali sequele del COVID-19. Questa rassegna riassume le definizioni aggiornate e gli aspetti epidemiologici del long COVID.

Parole chiave. COVID-19; Epidemiologia; Long COVID; Nosografia; SARS-CoV-2; Sequele post-acute dell’infezione da SARS-CoV-2.

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