Dalla letteratura

Dati grezzi su vaccini e farmaci

«Abbiamo bisogno di una completa trasparenza dei dati per tutti gli studi, ne abbiamo bisogno nell’interesse pubblico e ne abbiamo bisogno ora». Si conclude con queste parole un editoriale sul BMJ a firma di Peter Doshi, Fiona Godlee e Kamran Abbasi in cui si chiede che i dati clinici individuali (i cosiddetti dati grezzi o raw data) degli studi sui vaccini e sui trattamenti per covid-19 siano messi a disposizione della comunità scientifica1. Un appello, questo, a cui si unisce anche l’Associazione Alessandro Liberati – Cochrane Affiliate Centre (AssociALi).

Al momento i dati riguardanti i singoli individui che hanno preso parte agli studi non sono accessibili ai medici, ai ricercatori e al pubblico. A essere pubblicati sulle riviste scientifiche sono infatti i risultati delle analisi statistiche condotte su quei dati, mentre le informazioni relative ai singoli partecipanti – le quali potrebbero essere utilizzate per studi indipendenti, revisioni e metanalisi – restano per anni ad accesso esclusivo dell’azienda produttrice e delle agenzie regolatorie. «È questo il tempo di chiedere i dati grezzi, ma è di fatto anche il tempo della necessaria crescita/imposizione del rigore scientifico, della trasparenza e della metodologia Cochrane (quindi la completezza e la ripetibilità del metodo)», ha commentato Maria Grazia Celani, presidente di AssociALi. «Ma è un circolo vizioso perché con pochi dati o con dati selezionati le revisioni sono spazzatura. Trusted evidence, informed decisions, e better health dovrebbero rappresentare uno strumento unico e diffuso utilizzato dalle agenzie regolatorie ma anche da società scientifiche, università, riviste internazionali e nel corso di discussioni di esperti».




Per quanto riguarda i vaccini per covid-19 i dati grezzi potrebbero non essere accessibili per diverso tempo. Pfizer, ad esempio, ha dichiarato che comincerà ad accogliere le richieste di rilascio dei dati sul suo vaccino anti-covid-19 solo a partire da maggio 2025, quando saranno passati due anni dalla data prevista di completamento dello studio primario2. Moderna ha comunicato che i dati «potrebbero essere disponibili […] con la pubblicazione dei risultati finali dello studio», la cui conclusione è stimata per il 27 ottobre 20223. Sul sito di AstraZeneca si legge invece che l’azienda è pronta a prendere in considerazione le richieste di accesso ai dati per i loro studi di fase III ma che le tempistiche per il rilascio «variano a seconda della richiesta e possono richiedere fino a un anno dalla presentazione completa della richiesta stessa»4.

«In una situazione di questo tipo, con un impatto straordinario a livello mondiale, la richiesta di avere a disposizione i dati singoli è assolutamente ragionevole e condivisibile», ha commentato Silvio Garattini, presidente e fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS e socio onorario di AssociALi. «Perché i dati non possono rimanere patrimonio esclusivo di chi li ha sviluppati, specie in un contesto che ha visto le aziende utilizzare i dati della ricerca di base pagata dal pubblico».

I dati relativi alle terapie contro covid-19, poi, sono altrettanto difficili da trovare. Come riportano Doshi, Godlee e Abbasi, l’azienda Regeneron ha dichiarato che la condivisione dei dati relativi al trial di fase III della terapia a base di anticorpi monoclonali REGEN-COV sarà presa in considerazione solo nel momento in cui il trattamento dovesse essere approvato (e non solo autorizzato in caso di emergenza)5. Per il remdesivir invece gli US National Institutes of Health, che hanno finanziato la ricerca, hanno creato un nuovo portale per la condivisione dei dati ma le informazioni offerte sono piuttosto limitate.

Tra le autorità regolatorie, invece, la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti è quella che riceve la maggior parte dei dati ma tende a non rilasciarli. In seguito a una richiesta di accesso ai dati sul vaccino Pfizer, ad esempio, l’FDA ha acconsentito a condividere solo 500 pagine al mese sostenendo che la lentezza del processo, che avrebbe richiesto decenni per essere completato, è dovuta alla necessità di controllare le informazioni sensibili6. Anche cercando di ottenere i dataset grezzi dall’Health Canada e dalla European Medicines Agency (EMA), tuttavia, si finisce per ottenere ben poco perché le due agenzie non ricevono o analizzano questo tipo di informazioni.

Da qui la richiesta del BMJ di rendere accessibili in modo completo e immediato i dati individuali dei vaccini e dei trattamenti per covid-19. «La trasparenza – scrivono i tre autori dell’editoriale – è la chiave per costruire la fiducia e un modo importante per rispondere alle domande legittime dei cittadini sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini e dei trattamenti e sulle politiche cliniche e di salute pubblica stabilite per il loro uso». «Dovrebbero e potrebbero poi acquisire importanza i cittadini – ha aggiunto Celani – utili ad aiutare a divulgare i risultati evidenziando rischi e benefici, costi e quindi incertezza di efficacia, di durata e di applicabilità nelle diverse organizzazioni sociosanitarie».

Secondo Antonio Addis, ricercatore del Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale della Regione Lazio e membro della Commissione Tecnico Scientifica dell’Agenzia Italiana del Farmaco, a questo tipo di appelli dovrebbero però seguire azioni concrete. «Va bene chiedere alle agenzie regolatorie di essere più trasparenti e alle aziende farmaceutiche di rendere disponibili tempestivamente i raw data, ma come? Pensiamo anche all’aspetto pratico. La cosa che bisognerebbe fare è portare la metodologia delle revisioni sistematiche e delle metanalisi, di fatto l’approccio Cochrane, all’interno delle agenzie regolatorie. Non si capisce perché la Cochrane non possa avere un accesso diretto ai dati attraverso le agenzie regolatorie».

Rita Banzi, responsabile del Centro Politiche Regolatorie in Sanità dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS, pur appoggiando l’appello di Doshi, Godlee e Abbasi ha invece sottolineato come i toni accesi del loro editoriale rischino, nell’ambito della pandemia di Covid-19, di favorire interpretazioni sbagliate. «La richiesta di una maggiore condivisione dei dati deve valere per tutti i trattamenti, per tutte le malattie, per tutti gli studi e per tutti gli sponsor. Deve essere visto come un tema universale. Nel caso dei vaccini per covid-19, tuttavia, l’urgenza esplicitata dagli autori rischia di far passare l’idea che ci sia qualcosa che non ci viene detto, qualche dato che dovremmo leggere in maniera diversa».




Bibliografia

1. Doshi P, Godlee F, Abbasi K. Covid-19 vaccines and treatments: we must have raw data, now. BMJ 2022; 376: o102.

2. Thomas SJ, Moreira ED Jr., Kitchin N, et al. C4591001 Clinical Trial Group. Safety and efficacy of the BNT162b2 mRNA covid-19 vaccine through 6 months. N Engl J Med 2021; 385: 1761-73.

3. El Sahly HM, Baden LR, Essink B, et al. COVE Study Group. Efficacy of the mRNA-1273 SARS-CoV-2 vaccine at completion of blinded phase. N Engl J Med 2021; 385: 1774-85.

4. Voysey M, Clemens SAC, Madhi SA, et al. Oxford COVID Vaccine Trial Group. Safety and efficacy of the ChAdOx1 nCoV-19 vaccine (AZD1222) against SARS-CoV-2: an interim analysis of four randomised controlled trials in Brazil, South Africa, and the UK. Lancet 2021; 397: 99-111.

5. Weinreich DM, Sivapalasingam S, Norton T, et al. Trial Investigators. REGEN-COV antibody combination and outcomes in outpatients with covid-19. N Engl J Med 2021; 385: e81.

6. Greene J. We’ll all be dead before FDA releases full COVID vaccine record, plaintiffs say. Reuters 2021, pubblicato il 13 dicembre.

Arresto cardiaco tra ospedale e territorio

«Integrare nel complesso modello di gestione avanzata dell’arresto cardiaco extraospedaliero i principali snodi operativi della catena di sopravvivenza». È questo l’auspicio di Alessandro Proclemer, Direttore del Registro Italiano Pacemaker e Defibrillatori dell’Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione (AIAC) e autore di un articolo di commento sul tema pubblicato recentemente sul Giornale Italiano di Cardiologia1.

La gestione dell’arresto cardiaco extraospedaliero ha un forte impatto sulla salute pubblica. Gli studi epidemiologici più recenti mostrano un numero costante ed elevato di nuovi casi, la cui stima si attesta intorno ai 300.000 ogni anno negli Stati Uniti, ai 275.000 in Europa e ai 550.000 in Cina2-4. Sebbene negli ultimi tempi la prognosi sia migliorata (fino a pochi anni fa il tasso di sopravvivenza dopo rianimazione polmonare e successivo a ricovero era inferiore al 10%)5, secondo Proclemer esistono ancora ampi margini di miglioramento nella gestione di questi eventi, sia a livello pre-ospedaliero che ospedaliero.

Nell’ambito della gestione pre-ospedaliera alcune iniziative si sono dimostrate molto efficaci nel migliorare gli outcome dei pazienti con arresto cardiaco extra-ospedaliero. L’anno scorso, ad esempio, sono stati pubblicati i dati – inclusi nel registro nazionale danese – relativi agli effetti di una vasta campagna di diffusione della rianimazione polmonare (RCP) effettuata dai testimoni6. I risultati, relativi a 19.468 soggetti andati incontro a un arresto cardiaco extra-ospedaliero tra il 2001 e il 2010, hanno messo in evidenza una crescente applicazione della RCP nel corso nel decennio (da 21,1% a 44,9%), a cui è corrisposto un aumento della sopravvivenza al successivo ricovero (da 7,9% a 21,8%), a 30 giorni (da 3,5% a 10,8%) e a un anno di follow-up (da 2,9% a 10,2%). A risultati analoghi, poi, è giunto anche uno studio del Resuscitation Outcomes Consortium (ROC) in un’area complessiva di 24 milioni di abitanti7. «È importante sottolineare – scrive Proclemer – che in entrambi gli studi non viene affermato un rapporto causa-effetto certo tra diffusione della RCP da parte degli astanti e la successiva sopravvivenza, in quanto nello stesso periodo venivano utilizzate altre soluzioni terapeutiche in grado di migliorare la prognosi nelle vittime di arresto cardiaco extraospedaliero».

Un’altra iniziativa che sembra associarsi a un miglioramento della prognosi è la diffusione sul territorio dei defibrillatori semi-automatici (DAE) e al loro impiego da parte di personale qualificato. Uno studio olandese condotto tra il 2006 e il 2012 su 6133 vittime di arresto cardiaco extra-ospedaliero, per esempio, ha messo in evidenza un aumento dell’utilizzo del DAE da parte delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco nei primi 6 minuti dall’evento (da 21,4% a 59,3%), a cui è corrisposto un aumento della sopravvivenza dal 16,2% al 19,7% nell’intero gruppo dei pazienti e dal 29,1% al 41,4% di quelli con un evento secondario a ritmo defibrillabile8. A conclusioni simili sono poi giunte anche altre analisi condotte in Danimarca e in Italia9,10.




Le linee guida prodotte dalle più importanti società scientifiche internazionali negli ultimi vent’anni sottolineano l’importanza delle cure post-arresto cardiaco per trattare le cause dell’evento e mitigare il danno secondario alle fasi di ischemia e riperfusione post-arresto11. Queste riguardano, ad esempio, la gestione farmacologica per il mantenimento della stabilità emodinamica, le strategie dedicate a indurre un’ipotermia terapeutica tra 32 °C e 36 °C nelle prime 24 ore dopo l’arresto e a evitare la successiva ipertermia, le diagnosi e le terapie neurologiche per la prevenzione e il trattamento degli stati epilettici post-arresto, la gestione dell’assistenza respiratoria al fine di evitare ipossia o iperossia, il mantenimento dell’equilibrio metabolico, il precoce trattamento degli stati infettivi o la valutazione prognostica di recupero neurologico.

Inoltre, come sottolinea Proclemer, diverse prove confermano i benefici associati alla gestione dei pazienti con arresto cardiaco extra-ospedaliero da parte di team esperti, supportando l’attivazione di centro ospedalieri di riferimento11,12. È stato infatti dimostrato che un organizzazione di questo tipo si associa, a fronte di un allungamento dei tempi di trasporto, a outcome clinici significativamente migliori13.

«Nella realtà italiana tali centri si identificano con gli ospedali che operano come ‘Hub’ in stretto collegamento con i centri ospedalieri “Spoke” per il trattamento avanzato dei pazienti con sindromi coronariche acute, con aritmie maligne e/o storm aritmici, con shock cardiogeno e con le altre principali patologie acute cardiovascolari». Centri, questi, che secondo il Direttore del Registro Italiano Pacemaker e Defibrillatori dell’AIAC dovrebbero essere dotati di laboratori di cardiologia interventistica, di elettrofisiologia avanzata, possibilmente di cardiochirurgia in sede o in rete e di terapie intensive con adeguata esperienza.

Proclemer conclude riportando un’esperienza di integrazione tra gestione preospedaliera e ospedaliera dell’arresto cardiaco extraospedaliero, quella relativa al sistema di emergenza territoriale 118 operante nell’area metropolitana di Bologna14. In linea con le linee guida internazionali, infatti, nel territorio del capoluogo emiliano è stato sviluppato un modello di gestione integrata che sta ottenendo ottimi risultati. In termini di esiti, ad esempio, è stato riportato che il 31,2% dei pazienti rianimati è stato ammesso vivo in ospedale e il 17,9% è stato successivamente dimesso o trasferito in altre strutture.

«È sorprendente che a fronte di un elevato impatto nella sanità pubblica di un evento così drammatico come l’arresto cardiaco extra-ospedaliero, gli investimenti da parte delle autorità sanitarie e gli studi randomizzati patrocinati in tale ambito siano stati fino a un recente passato meno rappresentati rispetto ad altre importanti patologie, come le sindromi coronariche acute, lo scompenso cardiaco e l’ictus. Questa tendenza ha sicuramente limitato la diffusione su larga scala di percorsi integrati tra territorio ed ospedale ai fini di una cura avanzata delle vittime di arresto cardiaco extra-ospedaliero».




Bibliografia

1. Proclemer A. La gestione integrata tra territorio ed ospedale dell’arresto cardiaco extraospedaliero: l’unione fa la forza. G Ital Cardiol 2022; 23: 40-2.

2. Virani SS, Alonso A, Benjamin EJ, et al. Heart Disease and Stroke Statistics – 2020 update: a report from the American Heart Association. Circulation 2020; 141: e139-596.

3. Atwood C, Eisenberg MS, Herlitz J, Rea TD. Incidence of EMS-treated out-of-hospital cardiac arrest in Europe. Resuscitation 2005; 67: 75-80.

4. Xu F, Zhang Y, Chen Y. Cardiopulmonary resuscitation training in China: current situation and future development. JAMA Cardiol 2017; 2: 469-70.

5. Ornato JP, Becker LB, Weisfeldt ML, Wright BA. Cardiac arrest and resuscitation: an opportunity to align research prioritization and public health need. Circulation 2010; 122: 1876-9.

6. Wissenberg M, Lippert FK, Folke F, et al. Association of national initiatives to improve cardiac arrest management with rates of bystander intervention and patient survival after out-of-hospital cardiac arrest. JAMA 2013; 310: 1377-84.

7. Daya MR, Schmicker RH, Zive DM, et al. Out-of-hospital cardiac arrest survival improving over time: results from the Resuscitation Outcomes Consortium (ROC). Resuscitation 2015; 91: 108-15.

8. Blom MT, Beesems SG, Homma PC, et al. Improved survival after out-of-hospital cardiac arrest and use of automated external defibrillators. Circulation 2014; 130: 1868-75.

9. Kragholm K, Wissenberg M, Mortensen RN, et al. Bystander efforts and 1-year outcomes in out-of-hospital cardiac arrest. N Engl J Med 2017; 376: 1737-47.

10. Capucci A, Aschieri D, Guerra F, et al. Community-based automated external defibrillator only resuscitation for out-of-hospital cardiac arrest patients. Am Heart J 2016; 172: 192-200.

11. Perkins GD, Graesner JT, Semeraro F, et al. European Resuscitation Council Guidelines 2021: executive summary. Resuscitation 2021; 161: 1-60.

12. Lipe D, Giwa A, Caputo ND, et al. Do out-of-hospital cardiac arrest patients have increased chances of survival when transported to a cardiac resuscitation center? J Am Heart Assoc 2018; 7: e011079.

13. Karasek J, Seiner J, Renza M, et al. Bypassing out-of-hospital cardiac arrest patients to a regional cardiac center: Impact on hemodynamic parameters and outcomes. Am J Emerg Med 2021; 44: 95-9.

14. Semeraro F, Casella G, Gamberini L, et al. È il momento per implementare i Centri per l’Arresto Cardiaco in Italia? L’esperienza integrata nel decennio 2009-2019 tra area metropolitana ed Ospedale Maggiore di Bologna. G Ital Cardiol 2022; 23: 29-39.

Fabio Ambrosino

In collaborazione con Cardioinfo.it

Sopravvivenza libera da malattia come endpoint negli RCT in adiuvante: è importante? E per chi?

La sopravvivenza libera da malattia (DFS) è tra gli endpoint più complessi in oncologia: fa infatti riferimento al tempo che intercorre dal trattamento alla recidiva della malattia (o alla morte) ed è tipicamente usato nel setting adiuvante, in studi che devono stabilire se offrire il trattamento precocemente, rispetto al momento della ricaduta, offra un beneficio clinico.

Quando le opzioni terapeutiche sono note per essere efficaci, la tendenza naturale è infatti quella di cercare di utilizzarle nelle prime linee di terapia. Tuttavia, un trattamento aggressivo precoce non è necessariamente il miglior trattamento per il paziente, specialmente nel caso in cui molti pazienti potrebbero non averne mai bisogno e quando quelli che ne hanno bisogno possono trarre lo stesso beneficio usando il trattamento al momento della ricaduta.

Tipicamente, l’efficacia del trattamento adiuvante può essere valutata solo in un momento successivo, in base alla recidiva del tumore, quindi le valutazioni rischio-beneficio non sono semplici e somministrare al paziente un farmaco che mostra un miglioramento della DFS potrebbe non sempre rispecchiare il migliore interesse del paziente.

Un articolo di Bishal Gyawali e Christopher Booth – clinici e ricercatori alla Queen’s University in Canada – fa il punto sulla reale accuratezza del DFS come endpoint all’interno di trial nel setting adiuvante1: in questo contesto, mentre i rischi delle terapie sono immediati, non solo non vi è affatto la garanzia che il trattamento migliorerà la qualità di vita del paziente (in assenza di cancro e sintomi del cancro, non è possibile per il trattamento diminuire il carico di malattia) ma, al contrario, è certo che la qualità di vita peggiorerà. Inoltre, alcuni pazienti avranno una recidiva del tumore nonostante il nuovo trattamento e altri pazienti potrebbero non avere una recidiva del tumore anche senza il nuovo trattamento. Per questi due gruppi di pazienti, la nuova terapia adiuvante non offrirà benefici, ma solo tossicità. Pertanto, in questo setting alcuni pazienti saranno oggetto di overtreatment, giustificato solo qualora ci si attenda un miglioramento dei tassi di sopravvivenza globale (OS)2: se invece ci fosse un miglioramento nella DFS ma non nella OS, sarebbe possibile ottenere tassi di sopravvivenza simili utilizzando il farmaco al momento della ricaduta della malattia, evitando così inutili tossicità fisiche e finanziarie ai pazienti che non hanno recidive.

Nell’articolo viene inoltre specificato come «alcune tossicità da trattamento sono gravi e persino fatali. Anche se le tossicità fatali dovessero verificarsi nello 0,5% dei pazienti, si deve considerare se l’uso di tale trattamento come terapia adiuvante in tutti i pazienti, molti dei quali potrebbero non averne mai avuto bisogno, sia giustificato dall’assenza di beneficio per la OS».

L’articolo passa quindi a considerare trial come il KEYNOTE-5643, in cui l’immunoterapia (già confermata come trattamento standard per il carcinoma a cellule renali avanzato) viene valutata come terapia adiuvante: il trial ha mostrato un miglioramento della DFS, mentre i dati della OS sono immaturi e non ancora significativi. Questo miglioramento della DFS dovrebbe da solo cambiare la pratica clinica? La stessa domanda potrebbe essere posta su atezolizumab (IMpower010)4 e osimertinib (ADAURA)5 nel carcinoma polmonare non a piccole cellule. La risposta non può non considerare alcuni aspetti chiave: se non vi è alcun miglioramento nell’OS al follow-up, non è necessario somministrare questi trattamenti come terapia adiuvante ma potranno essere somministrati in modo sicuro più tardi, al momento della ricaduta, prevenendo così il sovratrattamento dei pazienti che non traggono beneficio da questo trattamento nella fase iniziale.

Se c’è invece un miglioramento dell’OS al follow-up, è fondamentale capire quale percentuale di pazienti nel braccio di controllo abbia ricevuto il trattamento al momento della ricaduta della malattia. Se questa proporzione fosse bassa e non riflettesse la pratica di routine, qualsiasi miglioramento della OS non sarebbe quindi significativo, perché potrebbe essere la conseguenza del fatto che i pazienti nel braccio di controllo non hanno ricevuto la terapia standard al momento della ricaduta6. La domanda a cui si deve rispondere negli studi adiuvanti è se offrire il trattamento precocemente, e non al momento della ricaduta, offra un beneficio clinico.

Pertanto, conclude l’articolo, per gli studi in adiuvante, il beneficio della OS rispetto a un braccio di controllo con un crossover adeguato al momento della ricaduta è l’indicatore più accurato del beneficio per il paziente.




Bibliografia

1. Gyawali B, Prasad V. Making adjuvant therapy decisions with uncertain data. Ann Oncol 2019; 30: 361-4.

2. Gyawali B, West HJ. Lessons from ADAURA on adjuvant cancer drug trials: evidence, ethics, and economics. J Clin Oncol. 2021;39:175-177

3. Choueiri TK, Tomczak P, Park SH, et al; KEYNOTE-564 Investigators. Adjuvant pembrolizumab after nephrectomy in renal-cell carcinoma. N Engl J Med 2021; 385: 683-94.

4. Wakelee HA, Altorki NK, Zhou C, et al. IMpower010: primary results of a phase III global study of atezolizumab versus best supportive care after adjuvant chemotherapy in resected stage IB-IIIA non-small cell lung cancer (NSCLC). J Clin Oncol 2021; 39 (suppl_15): 8500.

5. Wu YL, Tsuboi M, He J, et al. Osimertinib in resected EGFR-mutated non-small-cell lung cancer. N Engl J Med 2020; 383: 1711-23.

6. Gyawali B, de Vries EGE, Dafni U, et al. Biases in study design, implementation, and data analysis that distort the appraisal of clinical benefit and ESMO-Magnitude of Clinical Benefit Scale (ESMO-MCBS) scoring. ESMO Open 2021; 6: 100117.

Benedetta Ferrucci

In collaborazione con Oncoinfo.it